mercoledì 14 agosto 2013

Giovanni Damasceno per la Dormizione della Madre di Dio Tomba e morte non l'hanno trattenuta





Nella tradizione bizantina la festa della Dormizione della Madre di Dio è il sigillo che chiude l'anno liturgico, così come quella della sua Natività è l'inizio. La nascita e la glorificazione della Madre di Dio sono infatti anche l'inizio e il destino di tutta la Chiesa, di cui Maria è figura (týpos). Nell'ufficiatura mattutina vi è un canone di san Giovanni Damasceno (VII-VIII secolo) dove, a partire dalle odi bibliche che sono alla base del mattutino bizantino, sono sviluppati aspetti del mistero celebrato grazie a una lettura cristologica dei testi veterotestamentari.
L'autore sottolinea come la festa diventi una liturgia: "Adorna di divina gloria, o Vergine, la tua sacra e illustre memoria ha convocato alla festa tutti i fedeli che, preceduti da Maria con danze e timpani, cantano al tuo unigenito: Si è reso grandemente glorioso". Il Damasceno collega la prima ode (Esodo, 15, 1-19) con il transito, vero esodo, di Maria in cielo: "Vergini giovinette, insieme alla profetessa Maria, cantate ora il canto dell'esodo: perché la Vergine, la sola Madre di Dio, è trasferita all'eredità celeste. Accogli da noi il canto per il tuo esodo, o madre del Dio vivente". Qui Giovanni enumera i titoli dati a Maria nella festa e nelle tradizioni cristiane: "Degnamente, come cielo vivente ti hanno accolta, o tutta pura, le divine tende celesti: e tu, nella tua radiosa bellezza, hai preso posto come sposa tutta immacolata presso colui che è re e Dio".
Il transito della Madre di Dio diventa quasi una liturgia che raduna il cielo e la terra, manifestata dall'icona della festa: "Quale sorgente viva e copiosa, o Madre di Dio, rafforza i tuoi cantori, che allestiscono per te una festa spirituale, e nel giorno della tua divina gloria di corone di gloria rendili degni. La folla dei teologi dai confini della terra, la moltitudine degli angeli dall'alto, tutti si affrettavano verso il monte Sion al cenno della divina potenza, per prestare ben doverosamente, o sovrana, il loro servizio alla tua sepoltura. Da tutte le generazioni ti diciamo beata, o Madre di Dio vergine, perché in te si è compiaciuto dimorare il Cristo Dio nostro, che nessuna dimora può ospitare. Beati siamo anche noi, che abbiamo te quale protezione: giorno e notte, infatti, tu intercedi per noi".
Giovanni presenta chiaramente il tema della morte della Madre di Dio. Il suo transito alla vita avviene, come per Cristo stesso, attraverso l'esperienza della morte: "Da te è sorta la vita, senza sciogliere i vincoli della tua verginità. Come ha dunque potuto l'immacolata dimora del tuo corpo, origine di vita, aver parte all'esperienza della morte? Tu che sei stata sacrario della vita hai raggiunto l'eterna vita: attraverso la morte, infatti, sei passata alla vita, tu che hai partorito colui che è la vita. Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione. Quale madre della vita, alla vita l'ha trasferita colui che nel suo grembo sempre vergine aveva preso dimora".
Nell'ottava ode Giovanni prende spunto dal cantico dei tre fanciulli (Daniele, 3, 57-88) e ne fa un commento cristologico e mariologico: "Il parto della Madre di Dio, allora prefigurato, ha salvato nella fornace i fanciulli intemerati; ma ora che si è attuato convoca tutta la terra che salmeggia: Celebrate, opere, il Signore, e sovresaltatelo per tutti i secoli". Quasi come il giardino della tomba vuota di Cristo, anche la tomba di Maria diventa un nuovo paradiso: "Oh, le meraviglie della sempre vergine e Madre di Dio! Ha reso paradiso la tomba che ha abitata, e noi oggi attorniandola cantiamo gioiosi". La stessa fornace di Babilonia è figura del grembo di Maria: "Il potentissimo angelo di Dio mostrò ai fanciulli come la fiamma irrorasse di rugiada i santi e bruciasse invece gli empi; e così ha reso la Madre di Dio fonte vivificante dalla quale insieme zampillano la distruzione della morte e la vita per quanti cantano: Noi redenti celebriamo l'unico creatore, e lo sovresaltiamo per tutti i secoli".

di Manuel Nin

martedì 6 agosto 2013

Perché crollò Bisanzio



In un articolo scritto nel 1896 per la rivista "Vestnik Evropy", Vladimir Solov'ev fa un'audace rilettura storica del bizantinismo. Il testo integrale è contenuto nell'ultimo numero della rivista "La Nuova Europa" (3/2013).

di Vladimir Solov'ëv

La Roma pagana cadde perché la sua idea di Stato assoluto divinizzato era inconciliabile con la verità rivelatasi nel cristianesimo, secondo la quale il potere supremo dello Stato è solamente una delega del potere autenticamente assoluto, divino-umano, di Cristo. La seconda Roma, Bisanzio, cadde perché, pur avendo accolto in teoria l'idea del regno cristiano, di fatto lo rifiutò, si fossilizzò nella costante e sistematica contraddizione tra le sue leggi, la sua amministrazione e le esigenze di un principio morale superiore.  L'antica Roma divinizzò se stessa e cadde. Bisanzio, pur essendosi sottomessa nelle idee al principio superiore, si ritenne salvata per il fatto di aver rivestito la propria vita pagana con un manto esteriore di dogmi e ritualità cristiane, e cadde anch'essa. Questa caduta diede un forte impulso alla coscienza storica di un popolo che, assieme al battesimo, aveva ricevuto dai greci anche il concetto di regno cristiano. Nella coscienza nazionale russa, così come si è espressa nel pensiero e negli scritti dei nostri uomini di cultura, dopo la caduta di Costantinopoli sorse la ferma convinzione che il ruolo del regno cristiano fosse passato ormai alla Russia, che essa fosse la terza e ultima Roma. Se si trattasse solo della prima Roma, indagare i motivi della sua caduta non sarebbe così difficile. Roma cadde perché il suo principio fondante era falso e non poté reggere all'impatto con la verità suprema. Ma che dire della Bisanzio ortodossa? Il suo principio fondante era vero e il suo scontro con i turchi musulmani non fu lo scontro con la verità suprema. O forse Bisanzio crollò soltanto a causa della forza materiale? Ma un'ipotesi del genere, a parte che è inammissibile dal punto di vista cristiano, è altresì contraria alla ragione e all'esperienza storica, che abbondano di prove evidenti secondo cui la forza materiale da sola è impotente. Non fu per la superiore forza materiale che gli antenati classici dei greci bizantini distrussero i regni d'Oriente, e non fu per la superiorità quantitativa che le armate d'Aragona e Castiglia respinsero definitivamente la presenza musulmana in Occidente, proprio nel momento in cui questa poneva fine all'Impero d'Oriente. Ci fu una causa interiore, spirituale nella caduta di Bisanzio, e dato che non consisteva in un falso oggetto di fede, giacché ciò in cui credevano i bizantini era vero, significa che la causa della loro rovina va individuata nel carattere falso della loro fede in quanto tale, ossia nel loro falso atteggiamento verso il cristianesimo: essi interpretavano e applicavano un'idea vera in modo sbagliato. La fede per loro era solo un oggetto di riconoscimento intellettuale e di venerazione ritualistica, ma non era il principio motore della vita. Orgogliosi della loro retta fede e della loro pietà, non vollero capire la semplice ed evidente verità che la retta fede e la pietà autentiche esigono che noi conformiamo in qualche modo la nostra vita a ciò in cui crediamo e che veneriamo; non vollero capire che l'autentica superiorità del regno cristiano rispetto agli altri esiste solo nella misura in cui questo regno si edifica e si amministra secondo lo spirito di Cristo. 


domenica 4 agosto 2013

La festa della Trasfigurazione del Signore nella tradizione bizantina.


Trasfigurazione Monastero del Sinai, s. VI


Oggi la natura umana riacquista tutta la sua bellezza

       La festa della Trasfigurazione è una delle dodici Grandi feste del calendario bizantino; ha un giorno di pre festa il 5 agosto, ed un’ottava che si conclude il 13 dello stesso mese. L’iconografia della festa riprende la narrazione evangelica mettendo il Signore trasfigurato al centro dell’icona, avvolto di luce; Mosè ed Elia ai lati e sotto i tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni che non osano quasi a guardare la luce abbagliante che viene dal Signore. L’ufficiatura bizantina al vespro delle grandi feste ha due momenti che in qualche modo le caratterizzano: la litì e l’artoclasia. La litì –parola che significa “supplica”- è la processione e le litanie che si svolgono nel vespro dopo le letture bibliche e i tropari che le seguono; si svolge nella navata della chiesa, davanti all’iconostasi, e si conclude con l’artoclasia, cioè la frazione e distribuzione del pane, benedetto assieme all’olio e al vino. Nella festa della Trasfigurazione del Signore troviamo durante la litì un lungo tropario, anonimo, che riassume tutta la teologia della festa. Si tratta di una vera e propria mistagogia, per la Chiesa che lo canta, de mistero celebrato, cioè Cristo glorioso trasfigurato sul Tabor di fronte ai discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni, alla presenza dei profeti Mosè ed Elia. Diamo il testo del tropario diviso in diverse parti, per facilitarne il commento, benché abbia in se stesso un’unità quasi inscindibile.
“Il Cristo, splendore anteriore al sole, mentre ancora era corporalmente sulla terra, compiendo divinamente prima della croce tutto ciò che attiene alla tremenda economia, oggi sul monte Tabor misticamente mostra l’immagine della Trinità”. La prima parte del tropario situa la scena della Trasfigurazione dandone già un’interpretazione teologica. Due aspetti sono importanti: la Trasfigurazione di Cristo avviene prima della sua croce ed in qualche modo per i discepoli la prepara; quindi essa è una teofania trinitaria. Diversi dei tropari del vespro infatti mettono in evidenza questo “prima della sua croce…”. La Trasfigurazione del Signore, la manifestazione della sua divinità, prepara e sorregge i discepoli per l’altra grande manifestazione, quella della sua umanità sul Calvario.
“Conducendo infatti con sé in disparte i tre discepoli prescelti, Pietro, Giacomo e Giovanni, nasconde un poco la carne assunta e si trasfigura davanti a loro, manifestando la dignità della bellezza archetipa, seppure non nel suo pieno fulgore: l’ha infatti manifestata per dare loro piena certezza, ma non totalmente, per risparmiarli, perché a causa della visione non perdessero la vita, ed essa si adattasse piuttosto alle possibilità dei loro occhi corporali”. La seconda parte del tropario colloca la presenza dei tre discepoli Pietro, Giacomo e Giovanni sul Tabor. La Trasfigurazione sarà per loro un intravedere la natura divina del Verbo incarnato; la carne che il Verbo ha assunto –e il tropario adopera qua un linguaggio cristologico fortemente alessandrino-, viene messa quasi tra parentesi per mostrare a Pietro, Giacomo e Giovanni la bellezza della natura divina. Quasi che nel tropario la Trasfigurazione fosse messa in contrasto con quella manifestazione piena della natura più umana che mai del Verbo nell’orto di Getsemanì, sempre davanti a Pietro, Giacomo e Giovanni. Nel Tabor, la visione è comunque velata, parziale, come lo fu quella di Mosè sul Sinai.
“Parimenti prese il Cristo anche i sommi tra i profeti, Mosè ed Elia, come testimoni della sua divinità, perché attestassero che egli è verace irradiazione dell’essenza del Padre, colui che regna sui vivi e sui morti. Perciò anche la nube come tenda li avvolse, e attraverso la nube risuonò dall’alto la voce del Padre che confermava la loro testimonianza, dicendo: Questi è colui che, senza mutamento, dal seno, prima della stella mattutina, ho generato, il mio Figlio diletto; è colui che ho mandato a salvare quanti vengono battezzati nel Padre, nel Figlio e nello Spirito Santo e con fede confessano che è indivisibile l’unico potere della Deità: ascoltatelo!”. La terza parte del tropario si sofferma nella presenza di Mosè e di Elia sul Tabor che diventa quindi un nuovo Sinai. Il testo è una parafrasi di Es 24 –la nube che avvolge il monte durante la teofania- ed Es 33 –la voce di Dio dal Sinai-, e che sono versetti letti nelle letture fatte immediatamente prima durante il vespro della festa. Mosè ed Elia diventano testimoni della divinità di Cristo: “verace irradiazione dell’essenza del Padre, colui che regna sui vivi e sui morti”, quasi una parafrasi della professione di fede “luce da luce”. La voce del Padre dall’alto del Tabor diventa quindi una professione di fede di tutta la Chiesa, nel Dio uno e trino; nel Figlio mandato per la salvezza di tutti gli uomini.
“Tu dunque, o Cristo Dio amico degli uomini, rischiara anche noi con la luce della tua gloria inaccessibile, e rendici degni eredi, tu che sei piú che buono, del regno che non ha fine”. Il testo si conclude con una preghiera a Cristo, che verrà ripresa nel tropario proprio della festa: “Ti sei trasfigurato sul monte, o Cristo Dio, facendo vedere ai tuoi discepoli la tua gloria, per quanto lo potevano. Fa’ risplendere anche su noi peccatori la tua eterna luce, per l’intercessione della Madre-di-Dio, o datore di luce: gloria a te”.

P. Manuel Nin, Pontificio Collegio Greco, Roma