sabato 24 marzo 2012

Oggi Colui che non ha carne, prende carne da Maria…



L’Annunciazione del Signore.

Iconografia e innografia nella tradizione bizantina.

La festa dell’Annunciazione della Santissima Madre di Dio e sempre vergine Maria, ha il suo fondamento biblico nei Vangeli, specialmente in quello di Luca, ed è l’unica grande festa che troviamo lungo la Quaresima nella tradizione bizantina. Si tratta di una antica festa cristiana, introdotta in ambito costantinopolitano attorno al 530. L’icona della festa è molto semplice e si potrebbe dire essenziale, e contiene i due personaggi della narrazione evangelica: l’arcangelo Gabriele in atteggiamento annunziante, recando nelle mani uno scettro regale, e la vergine Maria in atteggiamento accogliente della parola dell'arcangelo, del Verbo di Dio, con una o le due mani alzate in gesto di preghiera. Dall’alto dell'icona al centro un raggio che si triplica con una colomba al centro scendendo su Maria indica la forza di Dio che la copre con la sua ombra.L’iconografia del 25 marzo viene cantata dalla stessa innografia liturgica della festa. Tutti i tropari sono quasi dei dialoghi tra l’arcangelo Gabriele e Maria. Soprattutto nei tre primi tropari dell’ufficiatura del vespro troviamo come una lettura liturgica dell'’iconografia della festa. Nel primo dei tropari l’arcangelo saluta la vergine con sette “gioisci” che introducono tutta una serie di temi cristologici presi da immagini dell’Antico Testamento: “Per rivelarti l’eterno consiglio, si presentò Gabriele, o Vergine, salutandoti e così parlando: Gioisci, terra non seminata; gioisci, roveto incombusto; gioisci, abisso imperscrutabile; gioisci, ponte che fa passare ai cieli e scala elevata contemplata da Giacobbe; gioisci, divina urna della manna; gioisci, liberazione dalla maledizione; gioisci, ritorno di Adamo dall’esilio…”. Tutta una serie di immagini che troviamo poi più sviluppate nell’inno Akathistos, collegato anch’esso alla festa dell'’Annunciazione. La presenza unica di Gabriele nell’indirizzarsi, nel parlare alla vergine, viene contrastata dal secondo dei tropari dove si sviluppa la risposta di Maria; manifesta lo stupore davanti alle parole di colui, l’arcangelo, che gli appare sotto forma quasi umana. Maria stessa applica a se stessa le immagini prese dai salmi e che vengono applicate al mistero dell'’incarnazione del Verbo di Dio: “Mi appari come uomo, disse la Vergine incorrotta al principe dell’esercito celeste: come dunque pronunci parole che oltrepassano l’uomo? Mi hai detto infatti che Dio sarà con me e prenderà dimora nel mio grembo: ma, dimmi, come potrò divenire ampio spazio e luogo di santità per colui che cavalca i cherubini? Non trarmi in inganno: non ho conosciuto piacere, sono estranea a nozze, come dunque partorirò un figlio?” Risposta di Maria diventa professione di fede della stessa Chiesa nell’incarnazione del Verbo di Dio. Il terzo tropario del vespro quindi riprende sia la risposta dell'arcangelo sia l’assenso della Madre di Dio: “Quando Dio vuole, l’ordine della natura è superato, rispose l’incorporeo, e si opera ciò che oltrepassa l’uomo. Credi alle mie veraci parole, o santissima più che immacolata. Ed essa esclamò: Mi avvenga dunque, secondo la tua parola, e io partorirò colui che non ha carne, che da me prenderà la carne per ricondurre l’uomo, grazie a questa unione, alla dignità antica: egli è il solo potente”. Notiamo la bella espressione cristologica messa nelle labbra di Maria: “colui che non ha carne… da me prende carne…”. L’ultimo dei tropari della prima parte del vespro mette in bocca dell'’arcangelo la meditazione dell'incarnazione del Verbo di Dio a partire da immagini quasi opposte l’una all’altra e prese tutte da testi veterotestamentari: “Fu mandato dal cielo l’arcangelo Gabriele ad annunciare alla Vergine il concepimento. Giunto a Nazaret, rifletteva in se stesso sul prodigio e ne era sbigottito: Dunque l’inafferrabile che è nel più alto dei cieli nasce da una vergine! Colui che ha il cielo per trono e la terra come sgabello si rinchiude nel grembo di una donna! Colui che i serafini dalle sei ali e i cherubini dai molti occhi non possono fissare, si compiace di incarnarsi da lei in virtú della sola parola. Colui che qui è presente è il Verbo di Dio. Che attendo dunque, perché non parlo alla fanciulla? Gioisci, piena di grazia, il Signore è con te; gioisci, Vergine pura; gioisci sposa senza nozze; gioisci, Madre della vita…”. Ancora dell'’ufficiatura del vespro abbiamo l’ultimo dei tropari, opera di sant’Andrea di Creta (VII-VIII sec.), e che diventa una lunga contemplazione della icona stessa della festa, collegandola con tutta l’economia di Dio nel suo amore verso l’uomo, da Adamo fino al Verbo incarnato. In primo luogo troviamo il tema della liberazione di Adamo ed Eva, che a sua volta un preannuncio della vittoria pasquale di Cristo stesso: “Adamo è rinnovato; Eva è liberata dalla tristezza di prima…”. Poi il tema della divinizzazione dell'’uomo: “…la dimora della nostra stessa sostanza, deificata da ciò che ha concepito, è divenuta tempio di Dio. O mistero! Ignoto il modo del divino annientamento, ineffabile il modo del concepimento…”. Quindi la professione di fede trinitaria; l’Incarnazione del Verbo coinvolge tutta la Trinità, presente nell’icona attraverso il triplice raggio che scende dall’alto: “Le realtà della terra si congiungono a quelle del cielo… Un angelo è ministro del prodigio; un grembo verginale accoglie il Figlio; lo Spirito Santo viene inviato; il Padre dall’alto esprime il suo beneplacito, e si opera questo incontro per il loro comune volere…”. La natura umana, assunta dal Verbo nella sua incarnazione, viene innalzata e salvata: “In esso e per esso salvati, ad una sola voce con Gabriele, acclamiamo alla Vergine: Gioisci, o piena di grazia dalla quale ci viene la salvezza, Cristo Dio nostro che, assunta la nostra natura, a sé l’ha innalzata…”.

P. Manuel Nin, Pontificio Collegio Greco, Roma


lunedì 19 marzo 2012


I N V I T O

Pontificio Collegio Greco - Comunità bizantina di S. Atanasio

Via del Babuino 149 – 00187 Roma

Sabato 24 marzo 2012 - ore 17,00 - nella sala di via dei Greci, 46 - Roma

si terrà una conferenza quaresimale su

“Gli Encomia del Venerdì Santo”

Relatore: Archimandrita Prof. P. Manuel Nin o.s.b.

Moderatore: Prof. Domenico Morelli


La S.V. è cordialmente invitata

martedì 13 marzo 2012

14 Marzo: Memoria di San Benedetto




Il 14 Marzo nel Sinassario bizantino si fa memoria del nostro santo padre Benedetto.

La famiglia del Collegio Greco oltre ad avere come patrono Sant’Atanasio il Grande si vanta anche di avere come protettore questo uomo che fu davvero benedetto di nome e di grazia così come lo definisce san Gregorio Magno nel II Libro dei Dialoghi. Fin dai primi anni della sua fanciullezza era già maturo e quasi precorrendo l'età con la gravità dei costumi, non volle mai abbassare l'animo verso i piaceri. Se l'avesse voluto avrebbe potuto largamente godere degli svaghi del mondo, ma egli li disprezzò come fiori seccati e svaniti. Era nato da nobile famiglia nella regione di Norcia. Pensarono di farlo studiare e lo mandarono a Roma dove era più facile attendere agli studi letterari. Lo attendeva però una grande delusione: non vi trovò altro, purtroppo, che giovani sbandati, rovinati per le strade del vizio. Era ancora in tempo. Aveva appena posto un piede sulla soglia del mondo: lo ritrasse immediatamente. Aveva capito che anche una parte di quella scienza mondana sarebbe stata sufficiente a precipitarlo intero negli abissi. Abbandonò quindi con disprezzo gli studi, abbandonò la casa e i beni paterni e partì, alla ricerca di un abito che lo designasse consacrato al Signore. Gli ardeva nel cuore un'unica ansia: quella di piacere soltanto a Lui. Si allontanò quindi così: aveva scelto consapevolmente di essere incolto, ma aveva imparato sapientemente la scienza di Dio.

Piacere soltanto a Lui, questa la proposta che Benedetto nonostante siano passati tanti anni dalla sua morte continua a proporre, non soltanto per chi ha deciso di intraprendere la vita monastica ma ad ogni cristiano che vuole definirsi tale. Basti leggere la sua Santa Regola il filo rosso della quale non è altro che andare alla ricerca di Dio. Ascolta, figlio mio, gli insegnamenti del maestro e apri docilmente il tuo cuore; accogli volentieri i consigli ispirati dal suo amore paterno e mettili in pratica con impegno”. Con queste parole Benedetto inizia la Santa Regola: mettersi all’ascolto ed offre a tutti il progetto di muovere dal timore di Dio per giungere alla perfezione della carità attraverso la pratica dell’ascolto, dell’umiltà che ben può ritenere la regina tra le virtù. Infatti la carità parte dal cuore di Dio, arriva al cuore dell’uomo, ritorna nel cuore di Dio. Tutti siamo chiamati alla perfezione alla santità. L’uomo prende Dio come fine di tutti i propri atti e, in primo luogo, come fine della sua stessa mente: tale fine si raggiunge mediante gli atti propri di questa mente: la conoscenza e l’amore. La mente «si applica a Dio» quando si sforza di conoscerlo e di amarlo. La santità, la conoscenza e l'amore di Dio si possono caratterizzare con un concetto: la contemplazione. Questa parola, a volte, può fare un po' paura, e molti pensano che si tratti di qualcosa che è riservato a poche anime elette. Questo è un errore perché, in realtà, il cristiano è contemplativo oppure non è veramente cristiano. Infatti se amiamo Dio desideriamo conoscerlo meglio, e più conosciamo Dio, più lo amiamo, questa circolazione, nel senso etimologico della parola è la contemplazione stessa, essa non si limita alle esperienze mistiche straordinarie, ma al tempo passato nell’orazione: include tutto ciò che riguarda il nostro progresso nella conoscenza di Dio. La santità si realizza nella contemplazione della verità divina, che deve essere il fine di ogni nostro desiderio e di ogni nostra azione e che è quaggiù l’anticipazione della beatitudine del cielo. Carissimi auguriamo a tutti che veramente Cristo oltre a essere l’ideale del monaco possa essere l’ideale di ciascuno, che possiamo formare il corpo mistico di Gesù Cristo, lui che è l’ideale sublime della santità, il Divino modello che Dio stesso presentò all’imitazione dei suoi eletti.

San Benedetto interceda per noi presso il trono glorioso della Santissima Trinità. Auguri





venerdì 9 marzo 2012

Kontakion: Ti Ipermacho


Con la dedica espressa nel Kondàkion si apre ogni celebrazione dell'Akathistos. Tale pezzo si ripete in ognuna delle quattro sezioni in cui l'inno è distribuito nell'ufficiatura liturgica.


Τη υπερμάχω στρατηγώ τα νικητήρια, ως λυτρωθείσα των δεινών, ευχαριστήρια αναγράφω σοι η Πόλις σου, Θεοτόκε· αλλ' ως έχουσα το κράτος απροσμάχητον, εκ παντοίων με κινδύνων ελευθέρωσον, ίνα κράζω σοι,

Χαίρε, νύμφη ανύμφευτε




Alla stratega condottiera vada il premio della vittoria, poiche' mi hai riscattata da tremende sventure. I canti di ringraziamento [io] tua citta' ti dedico,
o Genitrice di Dio. Fa' in modo che l'Impero non venga vinto
e liberami da ogni pericolo affinche' ti acclami:
"Gioisci, sposa non sposata!


venerdì 2 marzo 2012

Gli Inni sul Digiuno di sant’Efrem di Nisibi.


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Oggi digiuna la nostra bocca e digiuna anche il nostro cuore.

La traduzione italiana degli Inni sul digiuno di sant'Efrem il Siro apparsa nel 2011, ci offre l'occasione di approfondire alcuni aspetti dell'opera del diacono siro assai importanti per poter capire la teologia, la liturgia, la spiritualità di una Chiesa orientale nella seconda metà del IV secolo. La collezione di Inni sul digiuno di Efrem di Nisibi è composta da una decina di testi poetici, con una sorta di appendice che contiene altri quattro inni, di autenticità più dubbiosa.

Tutti gli Inni di questa raccolta hanno una chiara unità tematica che fa di essi quasi un unicum nell'opera efremiana: il loro nucleo ispiratore comune è costituito infatti dal digiuno, considerato, quest'ultimo, sotto angolature diverse. Anzitutto Efrem mette in rilievo il modello del digiunante, Cristo stesso, che lo ha osservato per quaranta giorni nel deserto: “Questo è il digiuno del Primogenito, l’inizio dei suoi trionfi. Rallegriamoci della sua venuta! Con il digiuno, infatti, egli ottenne la vittoria, sebbene in ogni modo potesse ottenerla. A noi mostrò la forza che è celata nel digiuno, che vince tutto. Con esso, infatti, si sconfigge colui che, con il frutto, sconfisse Adamo: pure con avidità l’inghiottì! Benedetto sia il Primogenito, che eresse il muro del suo grande digiuno attorno alla nostra debolezza”. Il digiuno di Cristo nel deserto viene così collegato con quello dei cristiani nel periodo che precede la celebrazione della vittoria di Cristo sulla morte e la sua risurrezione.

Nei diversi inni, Efrem predilige come esempi di digiunanti molti personaggi dell'Antico Testamento. Essi sono presentati sia come modelli per i cristiani sia come figure e precursori di Cristo stesso. Nello stesso tempo, per esaltare il digiuno come un “frutto bello”, che può tuttavia diventare guasto se non è praticato con la più sincera ispirazione, l'autore si serve anche di immagini tratte dalla natura che lo circonda: “Osserva la natura, nel caso in cui siano stati contaminati frutti allettanti in qualcosa infetto! Il nostro senso ne prova disgusto, (anche) una volta che siano stati ben lavati”. Oppure, allo stesso scopo esortativo, Efrem si avvale anche di immagini proprie della realtà quotidiana della vita: “Benedetto colui che ci donò un’immagine, in cui, se ben guardiamo, si trova lo specchio per la nostra invisibile unità. Vediamola, miei fratelli, nei simboli delle cose visibili. Osserviamo il caglio: se è immesso nel latte liquido, non cola più la sua liquidità, poiché si rapprende insieme alla forza coagulante. Benedetto sia colui che ci donò l’amore, che innesta una forza invisibile nella nostra debolezza”. Nei testi di Efrem scorre dunque tutta una serie di bellissime immagini che ci mostrano la sua capacità di guardare e penetrare a fondo il mondo creato, la sua capacità di vedere i simboli che in esso si nascondono e di cui servirsi come saggi ammaestramenti: “Esaminate (gli effetti) della carne su un volatile! Se ne mangia una grande quantità essa fiacca la sua ala appesantendola, ed esso non può volare, come in precedenza. Se l’aquila che (vola) più (in) alto di tutti è stata troppo vorace, non può più librarsi nell’aria nel modo di (prima). Poiché un (organismo) leggero, con (la carne), aumenta il suo peso, quanto più uno pesante, che ne mangia, sarà appesantito”.

In questi Inni Efrem presenta il digiuno come vittoria di Cristo su colui che vinse a sua volta Adamo col frutto dell'albero. Il digiuno di Cristo stesso nel deserto precederà la sua vittoria contro il nemico: “Questo è il digiuno a causa del quale l’avidità dimise i popoli sulla cima del monte. Rivestito (dei) digiuni egli vinse l’Avido, che s’era rivestito (del) cibo della stirpe di Adamo. Il capo dei vittoriosi ci diede la sua arma e fu elevato alle altezze per divenire osservatore (attento delle nostre battaglie). Chi non correrà all’armi con cui Dio ottenne la vittoria? È vergognoso, miei fratelli, soccombere con l’arma, che vinse e rese vittorioso tutto il creato!”. Il digiuno quindi è l'arma con cui il Signore stesso ottenne la vittoria contro il nemico. La vittoria ottenuta col digiuno deve rendere l'uomo attento a non cadere di nuovo nelle mani del nemico che, con astuzia, getta le sue trappole e tende a sua volta le sue armi: “Non date credito, o semplici, all’Ingannatore, che deruba i digiunanti! Infatti, chi vede astenersi dal pane, (l’Ingannatore) lo riempie di collera; a chi vede in preghiera insinua un pensiero dopo l’altro e, furtivamente, gli sottrae dal cuore la preghiera della sua bocca. Nostro Signore, donaci l’occhio (in grado) di vedere come (quegli) derubi la verità con frode”.

Il digiuno ancora è presentato da Efrem come vittoria che porta il cristiano alla purificazione e alla visione di Dio; qui troviamo un tema caro a Efrem e agli autori siriaci a lui posteriori, quello della purezza di cuore che conduce, quale culmine d’un cammino di elevazione spirituale, alla visione di Dio. Questo è il gradino più alto che l'uomo può attingere: “Questo è il digiuno che eleva in alto: sorse dal Primogenito per elevare in alto i piccoli. Per chi è accorto il digiuno è motivo di gioia, vedendo quanto sia stato elevato in alto. Il digiuno purifica invisibilmente l’anima, perché possa contemplare Dio ed elevarsi alla sua visione…”. Nello stesso tempo, però, Efrem non esita a biasimare il digiuno compiuto nell'ignoranza, perché non porta alla “visione” ma alla “cecità” chi lo pratica, fino ad uccidere il vero Agnello pasquale: “Venite, ricordiamo, digiunando, cosa fecero gli stolti durante i loro digiuni! (…) A Pasqua uccisero il Signore della Pasqua. Nella festa immolarono il Signore delle feste. (…) leggevano senza capire e spiegavano senza percepirne (il senso)! Lessero nelle Scritture; (lo) appesero sul legno. Le figure nei libri; la verità sul legno. Crocifissero l’Agnello di verità e (lo) appesero (…) (Lo) avevano crocifisso i ciechi, che si accesero d’invidia e, disorientati, errarono. (…) In mezzo ai crocifissori visibili stava una comunità spirituale, invisibilmente”. Inoltre Efrem, offre una bella lettura simbolico-mistagogica dei fatti anticotestamentari letti alla luce del Nuovo Testamento: “Mosè stava (là) con le sue braccia stese e il suo bastone sul petto. Stupore sulla cima del monte: steso il braccio e il bastone innalzato, come sul Golgota. Un loro testimone esclamò a loro riguardo: questo simbolo ha vinto Amalek. L’alleanza di Mosè, infatti, era come uno specchio: essa rifletteva nostro Signore. O verità che, anche ai ciechi, gridò: Qui sono io! I ciechi, avendola toccata, videro la luce; i vedenti, avendola scrutata, divennero ciechi, poiché crocifissero la luce”.

Il digiuno è maestro, oppure allenatore nella lotta: “Questo è il digiuno istruttore, che insegna all’atleta le mosse della lotta. Accostatelo, praticate(lo), apprendete il combattimento accorto. Ecco, egli ci ordinò che la nostra bocca digiunasse e digiunasse anche il nostro cuore. Non digiuniamo dal pane (se) nutriamo pensieri…”. Diverse volte, in questi inni, Efrem mette in guardia di fronte al falso digiuno, all'ipocrisia di chi ostenta esteriormente di digiunare, mentre il suo cuore è attaccato al male che non si vede: “L’Isaia eloquente si fece predicatore per biasimare i digiunanti: Grida e proclama! L’orecchio chiuso non si apre che al suono dell’argento! Non digiunare, mentre divori (i beni del)l’orfano! Non vestire l’abito di sacco, mentre spogli la vedova! Non piegare il tuo collo, mentre soggioghi degli esseri nati liberi! Un digiuno, che fa gemere e opprime, rende manifesti gli idoli che si celano in una tale prepotenza”.

In questi inni Efrem sembra quasi ricorrere a una forma di personificazione del digiuno; in esso, egli si riferisce ovviamente al digiuno come a una pratica ascetica, ma di certo pensa anche al Digiunante per eccellenza, Cristo stesso che è Colui che salva, arricchisce, libera, abbellisce, dà la vera gioia.

P. Manuel Nin - Pontificio Collegio Greco, Roma