domenica 22 aprile 2012

23 Aprile: San Giorgio Megalomartire



Αγίου Γεωργίου


L’esistenza della tomba di san Giorgio è testimoniata tra il 530 e il 670 da tre antichi- scrittori d’itinerari di pellegrinaggi cristiani, in particolare in Terra Santa: Teodosio Perigeta (africano del nord), Antonino, martire di Piacenza, e Adamnano, monaco irlandese, abate di lona o Hy. I documenti del VI e VII secolo, a loro volta, sono correlati a resti archeologici di una basilica cimiteriale risalente all’età dell’imperatore Costantino rinvenuti a Lydda in Palestina e tuttora visibili. Vi è inoltre un’epigrafe greca rinvenuta in Eccaea nella Batanea (regione della Palestina oltre il fiume Giordano, la Basan dell’Antico Testamento) datata dal bollandista Hippolyte Delehaye, al 368, la quale riferisce di una «casa dei santi e trionfanti martiri Giorgio e compagni», e di una chiesa dedicata al santo qualche decennio dopo la sua morte.
Dalla “passio Georgii” alla leggenda.
Il testo più antico della leggenda di san Giorgio ci è pervenuto da un codice greco del V secolo custodito nella Biblioteca Nazionale di Vienna. L’afflusso dei fedeli alla tomba di San Giorgio a Lydda, all’inizio del V secolo, determinò la stesura di una prima leggendaria Passio, da datare attorno al 916, (tradotta poi in latino dal Lippomano) che influenzò in maniera determinante il Monologo del Metafraste (siamo all’incirca nell’anno 964). Oltre che in latino, la Passio fu tradotta anche in altre lingue mediorientali, quali il copto, l’armeno, l’etiopico e l’arabo, per favorire l’uso liturgico che allora si faceva della vita dei santi. La figura di San Giorgio andò alimentandosi di racconti spesso fantasiosi: dalla prima Passio già citata, e rimaneggiata numerosissime volte nei secoli successivi in Asia, in Africa e in Europa, si pervenne alla leggendaria vita di San Giorgio che oggi conosciamo. Sebbene ci sia discordanza tra i vari estensori della Vita di San Giorgio, si può affermare con sicurezza che il santo nacque in Cappadocia, su quell’altipiano dell’Asia Minore che si estende dal mar Nero alle falde del monte Tauro, verso l’anno 280, da Geronzio, d’origine persiana, e Policronia, della Cappadocia, i quali professavano la fede cristiana. Per rintracciare i primi segni della santità di Giorgio, non si deve attendere l’età giovanile. Infatti, scrive il Metafraste, biografo accreditato del santo: «Il piccolo Giorgio, cristianamente educato alla verace pietà dai suoi genitori, accolse e fecondò nel suo cuore quei semi d ‘eroiche virtù, onde la Chiesa sorgente, tra lotte e trionfi, dalle rovine del paganesimo, a quel tempo abbisognava. . . ». Ancora in giovane età, nel momento in cui sentiva maggiore il bisogno dell’affetto dei genitori, perse il padre. Dopo tale lutto, si spostò con la madre a Lydda o diastoli in Palestina in una tenuta di sua proprietà e li, dopo poco tempo, rimase orfano anche della madre. Trascorsi gli anni dell’adolescenza, Giorgio dovette affrontare il momento della scelta del proprio stato e, nonostante il pericolo dovuto alla sua fede cristiana, decise di arruolarsi nella milizia di Diocleziano. Prima però di entrare nell’esercito si recò a Gerusalemme per visitare i luoghi santi e così rinsaldare, sulle orme benedette di Cristo, la propria fede. Tornato dal pellegrinaggio nella Città santa, Giorgio mise in pratica i dettami evangelici: vendette i suoi beni e distribuì il ricavato ai poveri. Quindi, a vent’anni, si presentò all’imperatore. Ricordandogli il nome e i servigi del padre, Giorgio espresse a Diocleziano il desiderio di entrare a far parte dell’esercito imperiale, e fu arruolato. Nel tempo durante il quale prestava servizio militare, ebbe ad affrontare la lotta contro il drago nelle vicinanze della città di Berito. Ma proprio durante il regno di quell’imperatore scoppiò una delle più gravi persecuzioni contro i cristiani. Anche in un tale clima di terrore Giorgio non esitò a professare esplicitamente la sua fede in Cristo. L’editto imperiale che ordinava la persecuzione dei cristiani era arrivato nelle province orientali e fu promulgato anche a Nicomedia. Giunto in quella città il giorno stesso della divulgazione di tale ordine, il giovane non solo non ebbe dei ripensamenti, ma rafforzò con decisione la propria adesione a Cristo, anzi, notando la grande costernazione dei suoi fratelli nella fede, maturò nel suo animo un atto ardito e generoso: lacerare di fronte a tutti il documento imperiale. Così, il giorno dopo, mise in esecuzione il gesto provocatorio, e, senza aspettare di essere arrestato dai soldati, si presentò spontaneamente davanti al tiranno che si trovava nel senato. Intervenne allora il console Magnesio, che, fatto immediatamente arrestare l’irruente militare, si provò con adulazioni e minacce a fargli rinnegare la fede, senza ottenere alcun esito. Visto vano ogni tentativo, Diocleziano ordinò che Giorgio fosse spinto verso la prigione, pungolato dalle lance dei miliziani, ma le punte delle armi — narra la tradizione - si ripiegavano su se stesse come fossero dì sottilissimo piombo, senza arrecare nessuna ferita sul corpo del giovane cristiano. Così il prigioniero, incatenato e senza cibo, fu lasciato languire a lungo nel carcere sotterraneo, dove lo attendevano altre sevizie: gli fu infatti messo sul corpo, disteso sul pavimento, un enorme masso di pietra che, premendogli il petto, gli toglieva quasi il respiro, ma egli affrontò con forza la prova fino al giorno seguente, senza emettere neppure un gemito. Fu allora sottoposto al supplizio dei flagelli e, successivamente, gettato in una fossa riempita di calce bollente ove fu lasciato per tre giorni; ma ne uscì indenne, come nella vicenda biblica dei tre adolescenti tra le fiamme della fornace di Babilonia. Sembrava che le torture e le violenze che venivano praticate con raffinata crudeltà sul corpo di Giorgio, anziché fiaccarne la fede, la rendessero più forte. Diocleziano, convinto che le torture dovessero ormai aver piegato la sua capacità di resistere, lo convocò alla sua presenza e gli rinnovò minacce e promesse; ma non ne ottenne che lo stesso risultato, perché il giovane si rifiutò con sdegno di sacrificare agli dei di Roma. Allora, accecato dall’ira, l’imperatore fece legare nudo il ribelle ad un disco di legno munito di lamine rotanti su un ripiano di legno che gli avrebbero lacerato le carni, ma, appena la ruota incominciò a girare, come inceppata da una forza invisibile, si ruppe e andò in frantumi. Prodigiosamente sciolto dalle catene che lo tenevano avvinto allo strumento del supplizio, Giorgio levò un inno di grazie al Signore che viene in soccorso ai suoi eletti e li salva. Convinto tuttavia che la forza del cristiano, come quella del valoroso patriota, non consiste nel fuggire il nemico che avanza minaccioso, ma nell’affrontarlo con coraggio, il giovane soldato decise di confrontarsi di nuovo con l’imperatore e lo incontrò nel tempio d’Apollo. Il tiranno non si aspettava certo di vedersi comparire davanti quell’indomito soldato, il quale andava alzando la voce per denunciare la vanità degli idoli “che hanno occhi e non vedono, hanno orecchie e non sentono, hanno bocca e non parlano”. Fattolo nuovamente arrestare, Diocleziano, al colmo della rabbia, comandò che a quell’impudente provocatore fosse fatta trangugiare una pozione di veleno, che però non recò alcun danno al prigioniero. Alla vista di tali prodigi, due tribuni - Anatolio e Protoleone, convinti e persuasi della grandezza della fede cristiana, si convertirono e, dichiaratisi pubblicamente discepoli di Cristo, subirono immediatamente la pena capitale. Perfino l’imperatrice Alessandra, moglie del tiranno, commossa dalle scene cui aveva assistito, non poté trattenersi dal dichiarare la sua simpatia per la fede cristiana, per cui fu condannata a morte; ma prima ancora di essere condotta al luogo del supplizio s’accasciò al suolo e spirò. L’imperatore continuava ad essere succube delle malie e dei consigli del mago Atanasio, dal quale fu spinto a sottoporre Giorgio ad una prova incredibile, quella di resuscitare un morto. In un frangente tanto difficile il giovane soldato non si perse d’animo, ma pose la sua speranza unicamente nella potenza del Signore che è vicino a chi lo invoca. Portato davanti ad una tomba scoperchiata dove giaceva un cadavere in avanzato stato di decomposizione, Giorgio alzò gli occhi al cielo e, dopo aver pregato, comandò al morto di tornare in vita. Questi, tra la meraviglia di tutti, si levò dal sepolcro e si prostrò ai suoi piedi confessando la propria fede in Gesù, imitato dal mago che aveva suggerito la sfida. Solo l’imperatore Diocleziano rimase irremovibile, pur in presenza di tanti e straordinari prodigi di cui era stato testimone in prima persona; anzi, preso da una rabbia che montava, diede l’ordine che Giorgio e tutti coloro che avessero aderito a Cristo fossero giustiziati. Giorgio, quindi, fu decapitato. Era l’anno 303 d.C.
San Giorgio e il drago, ovvero la “Leggenda Aurea”
La leggenda della fanciulla libérata dal drago per opera di San Giorgio è molto più tardiva rispetto alle altre; sorse in ambiente orientale e divenne popolarissima in Occidente attraverso la Leggenda Aurea di Jacopo da Varagine, arcivescovo di Genova, della seconda metà del XIII secolo. Si raccontava che il drago, un mostro del luogo che terrorizzava un intero paese, avvelenasse con il suo alito tutti quelli che gli si avvicinavano. La popolazione, per tenerlo tranquillo, gli offriva in pasto due pecore. Quando però gli ovini presero a scarseggiare, gli animali furono sostituiti da vittime umane scelte a caso tra la popolazione del villaggio. Un giorno la sorte designò quale macabra offerta della giornata la figlia del re. Il padre tentò di salvarla mettendo a disposizione per il riscatto il proprio patrimonio e perfino la metà del suo regno, ma il popolo, costretto a scegliere i figli per il sacrificio di tutti i giorni, si ribellò all’idea di un privilegio così odioso che avrebbe risparmiato la principessa, mentre tutti gli altri giovani venivano sacrificati senza pietà. Anche la figlia del re quindi dovette rassegnarsi ad andare incontro al proprio crudele destino. Ora avvenne che proprio durante tale circostanza il cavaliere Giorgio passasse casualmente da quelle parti. Venuto a conoscenza dell’amara vicenda, si offrì generosamente di affrontare l’orribile drago. Dopo averlo trafitto con la lancia e averlo ridotto all’impotenza, lo catturò e lo immobilizzò con la cintura della principessa. Poi lo trascinò in città. Alla vista del mostro al guinzaglio dell’eroe, il popolo ebbe paura, ma Giorgio tranquillizzò tutti esortandoli nel frattempo ad abbracciare la fede cristiana. Tutta la gente, assieme al proprio monarca, ne accolse l’invito. Dopo che Giorgio ebbe ucciso il drago, ben quindicimila uomini ricevettero il battesimo. Per sé il cavaliere non domandò nessun privilegio né alcuna ricompensa. Solo chiese al re di provvedere alle chiese, di onorare i sacerdoti e di praticare la carità verso i poveri. La leggenda di San Giorgio vittorioso sul drago era sorta al tempo delle crociate a causa di una falsa interpretazione di un’immagine dell’imperatore Costantino rinvenuta a Costantinopoli. In quella effigie il primo imperatore cristiano era ritratto nell’atto di schiacciare con il piede la testa di un drago. La fantasia popolare, forse ancora imbevuta delle leggende pagane (Perseo che uccide il mostro per liberare Andromeda), rielaborò ed arricchì il racconto che si diffuse ben presto anche in altre nazioni dell’Oriente. Secondo tale erronea interpretazione, Giorgio divenne cavaliere, e la sua figura in sella ad un cavallo venne a far parte dell’iconografia classica del santo.
I panegirici, i sacramentari e le preghiere liturgiche bizantine
Sono numerosi gli scrittori sacri che si sono occupati di San Giorgio, a partire dai Padri della Chiesa san Basilio, sant’Ambrogio e san Giovanni Crisostomo nei primi secoli dell’era cristiana dopo di loro, prima del Mille, il papa san Gregorio Magno, sant’Andrea di Creta e san Beda il Venerabile. Dopo l’anno Mille altre grandi personalità della Chiesa si ispirarono alla figura di San Giorgio e ne tesserono dei panegirici, elogiandone la fede e il martirio; tra di essi sono da ricordare, tra i secoli XI e XV, il vescovo Zaccaria, san Pier Damiani, san Vincenzo Ferreri e san Lorenzo Giustiniani. Anche il grande filosofo scolastico san Tommaso d’Aquino scrisse un sermone su di lui. Nel corso dei secoli schiere di predicatori, illustri o anonimi, nelle loro omelie continuarono a riferirsi al grande eroe della fede cristiana. In merito qui di seguito si fa cenno a sacramentari e ad alcuni panegirici tra i più significativi tenuti in onore del santo da predicatori nel periodo medievale, e giunti a noi attraverso documenti redatti in latino e riproposti in lingua italiana.
Da un panegirico di S. Andrea di Creta († 740)
Sant’Andrea di Creta, Padre della Chiesa Orientale, così tesse le lodi di San Giorgio in un suo panegirico: La memoria del nostro campione non solo ci ricorda per eccellenza la passione del Signore, giungendo a noi gradita per il suo atletico combattimento e bella per i fulgori primaverili, bensì partecipa assai largamente della gioia che ridonda delle più grandi solennità divine. Giorgio io dico, che nel nome significò maturanza divina e maturando mostrò in sé grazia rispondente al nome... Giorgio fu grande agricoltore di divine ispirazioni; egli, orticello divino, nel quale fu lavorata la grazia della fede e per tutti compiuti i numerosi miracoli. Costui, come rosa di mezzo alle spine, ebbe allora a nascere; e cresceva, di mezzo al lezzo dell’idolatri a, come giglio odoroso di fede. Ebbe a sorgere come un cipresso di mezzo ad un roveto, o come un ulivo che nereggia nel deserto, o come palma che raddolcisce i frutti già amari, o come luna piena che manda raggi in notte assai fosca, o come fiaccola in dense tenebre, o come stella del mattino di mezzo alle nuvole oscure per coloro che vanno raminghi nel mare, o come sole che vibra lieto splendore di mezzo ad una densa nebbia...”.

dal sito web: www.chiesasangiorgioalbanese.it



Απολυτίκιον Αγίου Γεωργίου



Ως των αιχμαλωτων ελευθερωτης,
και των πτωχων υπερασπιστης,
ασθενουντων ιατρος, βασιλεων υπερμαχος,
Τροπαιοφορε Μεγαλομαρτυς Γεωργιε,
πρεσβευε Χριστω τω Θεω,
σωθηναι τας ψυχας ημων.


lunedì 16 aprile 2012

Iconostasi e Liturgia celeste




Una prospettiva cattolica orientale

per la nuova evangelizzazione


Aula Magna

Pontificio Istituto Orientale

lunedì, 23 aprile 2012, ore 9.00

Scarica il programma: www.pontificio-orientale.com


mercoledì 11 aprile 2012

CELEBRATI IN SAN PIETRO I FUNERALI DEL CARDINALE DAOUD, "ARTEFICE DI UNITÀ"






2012-04-11 Radio Vaticana
“Testimone di unità dei cristiani”. Così ieri, nel corso delle esequie in San Pietro, il cardinale Angelo Sodano, decano del collegio cardinalizio, ha ricordato il cardinale Ignace Moussa I Daoud, patriarca emerito di Antiochia dei Siri e già prefetto della Congregazione delle Chiese Orientali. Il porporato si era spento sabato scorso a Roma all’età di 89 anni. Benedetta Capelli:
“Una vita tutta spesa a servizio della Chiesa”. In poche parole il cardinale Sodano ha tratteggiato la figura del Patriarca emerito di Antiochia dei Siri, cardinale Daoud. Un commosso ricordo al quale – ha detto il porporato nella sua omelia – si è anche unito il Papa da Castel Gandolfo. “Testimone di unità” è l’altra definizione usata dal cardinale Sodano per ricordare il cardinale Daoud che si spese con grande impegno alla guida della Congregazione per le Chiese Orientali e prima ancora come capo della Chiesa Patriarcale di Antiochia. Proprio come Patriarca, il cardinale Daoud assunse il nome tradizionale di Ignazio, “grande cultore dell’unità della Chiesa” e primo vescovo di Antiochia dopo l’Apostolo Pietro. “Antiochia era allora – ha detto il decano – una grande città della Siria, lì i discepoli di Cristo avevano iniziato a dirsi cristiani”. Da lì partì poi il grande slancio missionario della Chiesa dove tutti erano uniti “in un’anima sola ed un cuor solo”. Per quell’unità – ha ricordato il cardinale Sodano – nacque il Patriarcato di Antiochia dei Siri. L’amore verso Antiochia ha portato il cardinale Daoud a scegliere come luogo di sepoltura Beirut accanto ai suoi predecessori del Patriarcato Siro. “Noi a Roma – ha concluso il decano – lo ricorderemo sempre come artefice di unità impegnandoci poi a lavorare tutti per il bene della Santa Chiesa, riunita intorno al Successore di Pietro, così come Cristo la volle”

venerdì 6 aprile 2012


Ai Figli della Risurrezione

Un bellissimo nome dato ai cristiani i quali tengono ancora alla loro fede, a livello teologico-spirituale. La chiesa ogni anno ci da un periodo abbastanza lungo, quaranta giorni, non soltanto per vivere le scritture patristiche e la Parola Divina, ma anche per aiutarci a riflettere,tramite essi, sulla nostra vita quotidiana.

Possiamo chiederci a cosa serve il digiuno?

Il digiuno non è soltanto astenersi dal cibo, dalla carne o dai latticini, ma ha uno scopo molto più profondo, cioè vivere come i vecchi padri, in astinenza ma in abbondanza di preghiere per salvare l’anima tramite il corpo, Poiché per loro non vi sono dolori, il loro corpo è sano e ben nutrito (Sal 73, 4), Infatti non abbiamo portato nulla nel mondo, e neppure possiamo portarne via nulla; ma avendo di che nutrirci e di che coprirci, saremo di questo contenti (1Tim 6, 7-8). Il corpo che è sempre stato il discorso principale dei filosofi e dei teologhi, lo ha salvato nostro Signore tramite la Sua Incarnazione, per cui tutto è un mezzo per la nostra salvezza, per la stessa ragione Gesù ci avverte dicendo: Non temete coloro che uccidono il corpo, ma non possono uccidere l'anima; temete piuttosto colui che può far perire l'anima e il corpo nella geenna.(Mt 10, 28).

La resurrezione non viene data a colui che non si abbassa, che non si china a se stesso in primo luogo e al suo fratello in secondo, perché Dio stesso per la nostra salvezza si è fatto servo (umile), io per la salvezza dell’anima che devo fare?

La risposta è semplicissima:

a. Siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe. (Mt 10, 16b)

b. Vegliate, dunque, perché non sapete in quale giorno il vostro Signore verrà. (Mt 24, 42)

c. Vegliate e pregate, affinché non cadiate in tentazione; lo spirito è pronto, ma la carne è debole (Mt 26, 41)

d. Vegliate dunque, pregando in ogni momento, affinché siate in grado di scampare a tutte queste cose che stanno per venire, e di comparire davanti al Figlio dell'uomo (Lc 21, 36)

E tantissimi altri modi che io possa raggiungere, tramite il mio corpo, la salvezza mia e quella dei miei fratelli perché Il calice della benedizione, che noi benediciamo, non è forse la comunione con il sangue di Cristo? Il pane che noi rompiamo, non è forse la comunione con il corpo di Cristo? Siccome vi è un unico pane, noi, che siamo molti, siamo un corpo unico, perché partecipiamo tutti a quell'unico pane ( 1 Cor 10, 16-17).

Umili, uniti nella preghiera tramite il digiuno che ci offre la Chiesa, riusciremo a meritare il nome dato ai Fedeli Cristiani, Figli della Risurrezione come ci ha chiamato il Signore quando disse: "Io sono il Dio d'Abraamo, il Dio d'Isacco e il Dio di Giacobbe"? Egli non è il Dio dei morti, ma dei vivi» (Mt 22, 32), allora dobbiamo meritare la grazia di veder il Nostro Signore come Daniele che ha ricevuto la benedizione e la vera ricompensa come ci racconta: Alzai gli occhi, guardai, ed ecco un uomo, vestito di lino, che aveva ai fianchi una cintura d'oro di Ufaz. Il suo corpo era come crisolito, la sua faccia splendeva come la folgore, i suoi occhi erano come fuoco fiammeggiante, le sue braccia e i suoi piedi erano come il bronzo splendente e il suono della sua voce era come il rumore d'una moltitudine. Soltanto io, Daniele, vidi la visione; gli uomini che erano con me non la videro, ma un gran terrore piombò su di loro e fuggirono a nascondersi. Io rimasi solo, a contemplare quella grande visione. In me non rimase più forza; il mio viso cambiò colore fino a rimanere sfigurato e le forze mi abbandonarono. Poi udii il suono delle sue parole, ma appena le udii caddi assopito con la faccia a terra. Ed ecco, una mano mi toccò e mi fece stare sulle ginocchia e sulle palme delle mani. Poi mi disse: "Daniele, uomo molto amato, cerca di capire le parole che ti rivolgo, e àlzati nel luogo dove stai; perché ora io sono mandato a te". Quando egli mi disse questo, io mi alzai in piedi, tutto tremante. Egli mi disse: "Non temere, Daniele, poiché dal primo giorno che ti mettesti in cuore di capire e d'umiliarti davanti al tuo Dio, le tue parole sono state udite e io sono venuto a motivo delle tue parole (Dan 10, 5-12).

Michel Skaf, alunno P.C.G.

giovedì 5 aprile 2012

I tropari della Vigilia di Natale e del Venerdì Santo nella tradizione bizantina.



Oggi è appeso al legno colui che ha appeso la terra sulle acque

I giorni 24 dicembre, vigilia di Natale, 5 gennaio, vigilia dell'Epifania e il Venerdì Santo, nella tradizione bizantina le piccole ore di prima, terza, sesta e nona diventano Grandi Ore o chiamate anche Ore Regali. La struttura normale di ognuna di queste ore: preghiere iniziali, tre salmi, tropari e preghiere conclusive, viene arricchita con dei salmi scelti per ognuna delle ore e secondo ognuno dei tre giorni sopra citati; con dei tropari propri; e infine con tre letture: una profezia dell'Antico Testamento, un brano delle lettere paoline e una pericope evangelica. La scelta dei salmi e della lettura profetica risponde a una lettura cristologica di questi testi inserita nel mistero della Nascita di Cristo, della sua Manifestazione nel Giordano e della sua Morte sulla croce. All’ora di nona di questi tre giorni e prima delle letture dell'Antico Testamento, troviamo un tropario proprio per ognuno dei tre giorni, un testo che riassume la teologia della festa che si celebra. Tutti e tre tropari accostano con dei testi biblici vetero e neotestamentari il mistero di Dio ineffabile ed eterno, al suo farsi uomo, al suo abbassarsi, a causa del suo amore immenso verso l’uomo. Vorrei soffermarmi a fare una lettura parallela del tropario del 24 dicembre e quello del Venerdì Santo. Alla fine diamo pure il testo del terzo dei tropari sopra accennati, quello del 5 gennaio.

24 dicembre

Oggi nasce dalla Vergine colui che tiene in sua mano tutta la creazione (3 volte).

È avvolto in povere fasce come un mortale, colui che è per essenza intoccabile.

Viene deposto in una mangiatoia, il Dio che in principio ha fissato i cieli.

Si nutre di latte dalle mammelle, colui che nel deserto ha fatto piovere manna per il popolo.

Invita i magi lo sposo della Chiesa.

Prende i loro doni il Figlio della Vergine.

Adoria­mo, o Cristo, la tua nascita (3 volte). Mostraci anche la tua divina teofania.

Venerdì Santo

Oggi è appeso al legno colui che ha appeso la terra sulle acque (3 volte).

Oggi il Re degli angeli è cinto di una corona di spine.

Oggi è avvolto di una finta porpora colui che avvolge il cielo di nubi.

Riceve uno schiaffo, colui che nel Giordano ha liberato Adamo.

È inchiodato con chiodi lo Sposo della Chiesa.

È trafitto da una lancia il Figlio della Vergine.

Adoriamo, o Cristo, i tuoi patimenti! (3 volte). Mostraci anche la tua gloriosa risurrezione.

I due tropari possono dividersi in due gruppi di tre versetti più uno conclusivo. Ambedue iniziano con la parola “oggi”, un termine che dà una forza ed una attualità al testo, che ne fa quasi un’epiclesi sulla Chiesa stessa, facendo presente il mistero che si celebra e si vive. La prima e l’ultima delle strofe dei due tropari vengono ripetute per tre volte. Le immagini che troviamo nell’uno e nell’altro tropario sono volutamente parallele e riprendono aspetti dei due giorni accostandoli fino a complementarsi l’uno con l’altro. Ognuna delle frasi dei due tropari contrappone al suo interno delle immagini cristologicamente molto contrastanti, per sottolineare da una parte le due nature di Cristo, quella divina e quella umana, e dall’altra il mistero della sua Incarnazione: “Oggi nasce dalla Vergine colui che tiene in sua mano tutta la creazione”; “Oggi è appeso al legno colui che ha appeso la terra sulle acque”. Il Dio creatore nasce da una Vergine; il Dio che regge l’universo ed è provvidente verso la sua creazione, è appeso alla croce.

Nella sua Incarnazione il Dio che è intangibile, è toccato, fasciato, cinto da una corona di spine: “È avvolto in povere fasce come un mortale, colui che è per essenza intoccabile”; “Oggi il Re degli angeli è cinto di una corona di spine”. Una mangiatoia (e nell’iconografia la mangiatoia è sempre un sepolcro) contiene colui che è incontenibile anche dai cieli: “Viene deposto in una mangiatoia, il Dio che in principio ha fissato i cieli”. Con il termine “avvolgere” la terza frase del tropario di Venerdì Santo accosta Mt 27 e Is 63: “Oggi è avvolto di una finta porpora colui che avvolge il cielo di nubi”.

In tre altri versetti i due tropari continuano ad elencare il mistero dell'economia di Dio nel suo amore verso l’uomo. L’immagine del nutrirsi è applicata a Cristo stesso; colui che nutre adesso è nutrito: “Si nutre di latte dalle mammelle, colui che nel deserto ha fatto piovere manna per il popolo”. Colui che salva e libera l’uomo, ne riceve anche uno schiaffo: “Riceve uno schiaffo, colui che nel Giordano ha liberato Adamo”. I due tropari si servono anche dell'immagine sponsale applicata a Cristo e alla sua Chiesa: “Invita i magi lo sposo della Chiesa”; “È inchiodato con chiodi lo Sposo della Chiesa”. E nel tropario del Venerdì Santo questo riferimento si inserisce nel contesto sponsale ricorrente in tutta la Settimana Santa: Cristo che prende la Chiesa come sposa, nella camera nuziale che è la stessa Croce. Nel terzo versetto della seconda serie troviamo l’immagine di Cristo come “Figlio della Vergine”, in contrasto voluto tra la vera figliolanza di Cristo e la vera verginità di Maria: “Prende i loro doni il Figlio della Vergine”; “È trafitto da una lancia il Figlio della Vergine”.

L’ultimo versetto dei due tropari (ripetuto pure come all’inizio per ben tre volte) è una conclusione quasi dossologica: adorando il mistero della Nascita e quello della Croce di Cristo, la Chiesa ed ognuno dei fedeli chiediamo di vedere quello che ne diventa il compimento: la manifestazione (Epifania) e la risurrezione (Pasqua). Il rapporto stretto tra Natale di Cristo e la sua gloriosa Passione, ce lo danno questi due testi, ed anche la stessa iconografia del 25 dicembre dove troviamo, e in tutte le tradizioni cristiane dall’Oriente all’Occidente, il Bambino neonato, fasciato, messo già in un sepolcro.

P. Manuel Nin, Pontificio Collegio Greco, Roma.


mercoledì 4 aprile 2012



I primi giorni della Settimana Santa nell’iconografia e nell’innologia bizantina.

Io sono venuto per servire Adamo divenuto povero ….

La Sacra Scrittura, sia l'antico che il nuovo Testamento, parlano del rapporto di Dio col suo popolo, con ogni battezzato, come di un rapporto sponsale; la vita delle diverse Chiese cristiane poi, sia in Oriente che in Occidente ha continuato e sviluppato questa dimensione sponsale nella vita liturgica, monastica, ed anche nell’ecclesiologia. Specialmente nei tre primi giorni della Settimana Santa nella tradizione bizantina, viene messa in luce chiaramente la figura di Cristo Sposo, cioè le nozze di Dio con la Chiesa, con l'umanità. L’icona stessa chiamata dello “Sposo” rappresenta il Cristo sofferente ai piedi della croce, icona anche chiamata “la più grande umiliazione”, quasi a riprendere il testo del capitolo secondo della lettera ai Filippesi. Uno dei tropari dell'ufficiatura di questi tre giorni è il tropario: “Ecco lo Sposo viene nel mezzo della notte, beato quel servo che troverà vigilante, indegno quel servo che troverà negligente! Guarda dunque anima mia, di non lasciarti opprimere dal sonno, per non essere consegnata alla morte e chiusa fuori del Regno! Ma, vegliando, grida: Santo, Santo, Santo tu sei, o Dio; abbi pietà di noi.” Il testo liturgico mette in luce tre aspetti importanti. Il primo è quello dell'attesa dello Sposo; l'attesa del ritrovamento tra il vecchio Adamo, cacciato dal Paradiso simbolicamente all'inizio della Quaresima, diventa adesso molto più pressante con l'uso dell'immagine e del tema evangelico dell'arri­vo e dell'incontro con lo Sposo, uno Sposo il cui talamo nuziale è unicamente la sua croce. Il secondo aspetto è l'analogia che il tropario fa tra sonno e morte. L'arrivo dello Sposo per il cristiano è il momento del suo trapasso, della sua morte; lui, lo Sposo, arriverà nella notte - nell'ora in cui il servo non sa, e per questo viene chiesta la vigilanza, il guardare verso di Lui. Il terzo aspetto è quello delle nozze divine e l'assoluta indegnità dell'uomo che solo può entrare nella camera nuziale, il Regno, grazie alla luce che viene da Cristo per mezzo del battesimo. Di fronte allo Sposo nel suo talamo nuziale, cioè Cristo umiliato ed umile ai piedi della croce, il cristiano si scopre dal tutto peccatore, ma pure amato e salvato da questo Dio umile ed umiliato.

Collegato alla dimensione sponsale di Cristo, alcuni dei tropari dei primi giorni della settimana santa sottolineano ancora una volta la povertà e l’annientamento di Cristo per mezzo della sua incarnazione: “Sono venuto per servire Adamo divenuto povero, della cui forma volontariamente mi sono rivestito, io, il Creatore, ricco per la divinità; sono venuto per immolarmi in suo riscatto, io, impassibile per la divinità… Il primo tra voi sia dunque servo di tutti, chi governa come chi è governato, e l'eletto come l'ultimo. Io sono infatti venuto per servire Adamo divenuto povero, e dare la mia vita in riscatto di molti…”. I testi ancora mettono in evidenza come Cristo sposo, fattosi povero, diventa il vero servo nella Chiesa e ne diventa modello per tutti i cristiani: “Tutti vi riconosceranno per miei discepoli se osserverete i miei comandamenti, dice il Salvatore agli amici, andando verso la passione. Abbiate pace in voi e con tutti, e nutrite pensieri umili per essere innalzati... Il vostro potere sui fratelli sia il contrario di quello delle genti, perché non è mia eredità la tirannide, ma la libera volontà. Chi dunque tra voi vuole essere l'eletto, sia l'ultimo di tutti… Guardate a me, hai detto, Signore, ai tuoi discepoli, e non pensate cose alte, ma lasciatevi attrarre da quelle umili; bevete il calice che io bevo, per essere con me glorificati nel regno del Padre mio”.

Facendo una rilettura della parabola delle dieci vergini, proclamata nel vangelo del vespro del martedì santo, i tropari della liturgia bizantina esortano alla vigilanza, all’attesa e alla custodia dell'olio nelle lampade del proprio cuore: “Gettiamo lontano da noi l'indolenza, e con le lampade accese andiamo incontro tra gli inni al Cristo, sposo immortale… Abbondi nei vasi della nostra anima l'olio della condivisione: se non ci illudiamo di poterlo ancora acquistare al tempo delle ricompense… Quanti avete ricevuto da Dio eguale potenza di grazia, moltiplicate il talento con l'aiuto di Cristo che ve lo ha dato, salmeggiando: Benedite, opere del Signore, il Signore”. L’ingresso delle vergini sagge nel talamo nuziale è tipo dell'ingresso nel talamo della misericordia del Signore: “Sonnecchiando per l'indolenza dell'anima, o Cristo sposo, non ho la lampada accesa, la lampada delle virtù, e sono simile alle vergini stolte, perché vago qua e là mentre è tempo di operare. Non chiudermi, o Sovrano, le viscere della tua misericordia, ma svegliami, scuotendomi da questo sonno tenebroso, e fammi entrare insieme alle vergini sagge nel tuo talamo, dove echeggia un puro suono di gente in festa…”.

L’immagine del Cristo come sposo viene messa in rilievo nei tropari della settimana santa accostandola al tema del ritorno del Signore, ed anche richiamando le diverse volte che nei vangeli il Signore si serve dell'’immagine nuziale nel suo rapporto con gli uomini: “Quando verrai nella gloria con le potenze angeliche e ti siederai sul trono del giudizio, o Gesú, non allontanarmi da te, o pastore buono. Tu riconosci infatti le vie della parte destra, mentre quelle a sinistra sono distorte… annoverami tra le pecore che stanno alla tua destra… O Sposo splendido di bellezza al di sopra di tutti gli uomini! Tu che ci hai convocati per il banchetto spirituale delle tue nozze, spogliami, con la partecipazione ai tuoi patimenti, dell'aspetto cencioso che mi danno le mie colpe e, ornandomi con la veste di gloria della tua bellezza, rendimi splendido commensale nel tuo regno, o compassionevole..”.

Tutti i tre primi giorni della settimana santa si concludono col canto di un tropario che riprendendo il tema sponsale di questi giorni, gli dà già una chiara dimensione anche battesimale collegata con la Pasqua: “Vedo il tuo talamo adorno, o mio Salvatore, e non ho la veste per entrare. Fa' risplendere la veste dell'anima mia, o tu che doni la luce, e salvami!”.

P. Manuel Nin

Pontificio Collegio Greco Roma