Dal 2 al 4 febbraio si è svolta la sessione ordinaria del Sinodo dei vescovi della Chiesa Ortodossa Russa, quasi in parallelo a quella del Sinodo permanente della Chiesa Cattolica Italiana.
I due organismi hanno un valore ecclesiologico analogo, anche se il Sinodo ortodosso (o “la” Sinodo al femminile, come amano sottolineare gli orientali, per esaltare la coincidenza tra collegialità e natura della Chiesa) si considera il vertice della struttura ecclesiastica, mentre quello cattolico è subordinato al governo del Papa e della Sede Apostolica. In entrambi i casi i vescovi hanno provveduto a dare risposte concrete alle necessità delle chiese locali e delle varie strutture pastorali, con le loro esigenze materiali e spirituali, le nomine e le definizioni funzionali necessarie allo svolgimento delle attività della Chiesa nella propria nazione o “territorio canonico”.
C’è in effetti una grande sintonia nelle espressioni ordinarie della vita della Chiesa, in Oriente come in Occidente; la Chiesa Cattolica ha ormai digerito le massicce dosi di “sinodalismo” imposte dal Concilio Vaticano II, e al di là della esposizione mediatica, il ruolo del papato romano viene sistematicamente declinato e coordinato secondo il ritmo della gestione collegiale delle Chiese nazionali e continentali. D’altra parte, la Chiesa Ortodossa ha rapidamente assunto negli ultimi venti anni, ormai libera dall’oppressione di regimi ideologicamente avversari, tutta una serie di modalità di azione ed espressione tipiche delle Chiese occidentali: una dottrina sociale legata alle vicende dell’attualità, una gestione delle strutture ecclesiastiche più moderna ed efficiente, e soprattutto una concezione della comunione ecclesiale fortemente identificata nelle figure primaziali (patriarca, metropolita, vescovo diocesano). Potremmo dire semplificando che la Chiesa Cattolica è diventata più “ortodossa”, mentre le Chiese Ortodosse hanno oggi un aspetto più “cattolico”.
Dimostrare questa tesi richiederebbe una lunga analisi, ma l’impressione può essere confermata dalla citazione delle parole del patriarca di Mosca Kirill, in chiusura del Sinodo russo: “La comunione (sobornost’) presuppone la partecipazione di un’ampia cerchia di persone, ma allo stesso tempo la custodia indefessa della verticale gerarchica dell’autorità nella Chiesa. È l’unione di queste due componenti a formare quella forza che aiuta la Chiesa, superando tutte le avversità e le peripezie storiche, ad esistere ormai da due millenni”. L’insistenza del Patriarca sulla comunione/sobornost’, secondo una classica definizione russa, si comprende infatti alla luce della seconda categoria, quella della “verticale dell’autorità” (espressione preferita del presidente Putin per definire la democrazia russa), per dare alla Chiesa la sua “forza”, cioè la capacità di conservarsi nella storia e di influire sugli eventi sociali e politici. La celebrazione della sopravvivenza della Chiesa ha un particolare significato alla luce degli eventi della storia russa del XX secolo, e insiste su un concetto particolarmente caro al patriarca di Mosca: la Chiesa deve essere coinvolta nella formazione delle strutture sociali. Questo concetto, cavallo di battaglia della Chiesa latina in tutto il secondo millennio cristiano, viene ora rilanciato dai russi come risposta alle sfide del terzo millennio; la differenza starebbe nella capacità orientale di essere presente nel mondo senza prevaricare il potere laico, come invece hanno fatto i cattolici nella storia d’Europa.
Non sappiamo dire quanto le altre Chiese ortodosse siano effettivamente allineate sulle posizioni del Patriarcato di Mosca, che si pone come punto di massima convergenza tra le tradizioni orientali e occidentali. Mentre il papa Benedetto XVI, il cardinale Bagnasco e i vescovi italiani richiamano la necessità di una condotta morale irreprensibile per chi opera responsabilmente nella gestione della cosa pubblica, il patriarca Kirill con i suoi collaboratori propongono un codice morale più rigoroso nella vita della società russa, fino a richiedere un “codice d’abbigliamento” che freni la deriva libertina dell’immagine di chi ha responsabilità pubbliche, e in generale della vita della popolazione. È l’ecumenismo della globalizzazione.
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