Il Sabato di Lazzaro
La sesta e ultima settimana di
Quaresima si chiama “Settimana delle Palme”. Nei sei giorni che precedono il
sabato di Lazzaro e la Domenica delle Palme, la liturgia della Chiesa ci fa
seguire il Cristo a cominciare dal suo primo annuncio della morte del suo amico
e dall’inizio del suo viaggio a Betania ed a Gerusalemme. Il tema ed il tono di
questa settimana sono annunciati al vespro della domenica precedente: “Cominciando
con zelo la sesta settimana di Quaresima, offriremo al Signore inni,
annunciando la festa delle palme, a lui che viene con gloria e potenza divina a
Gerusalemme per mettere a morte la morte...”. Il centro dell’attenzione è
Lazzaro, la sua malattia, la sua morte ed il dolore dei suoi congiunti e la
reazione del Cristo a tutto ciò. Così al lunedì leggiamo: “Oggi la
malattia di Lazzaro appare al Cristo mentre egli cammina sull’altra riva del
Giordano...”. Al martedì udiamo le parole: “Ieri ed oggi Lazzaro è
malato...”. Al mercoledì si legge: “Oggi Lazzaro morto è portato alla
sepoltura ed i suoi congiunti piangono...”. Al giovedì: “Due giorni or
sono Lazzaro è morto...”. Infine al venerdì: “Domani il Cristo viene a
sollevare il fratello morto (di Marta e Maria)...”. Tutta la settimana passa
così nella contemplazione spirituale del prossimo incontro tra Cristo e la
morte, dapprima nella persona del suo amico Lazzaro, poi nella morte del Cristo
stesso. È l’avvicinarsi di quell’ora del Cristo di cui egli stesso ha parlato e
verso la quale era rivolto tutto il suo ministero terreno. Dobbiamo dunque
chiederci: Qual è il posto ed il significato di questa contemplazione nella
liturgia quaresimale? In che rapporto sta con il nostro sforzo quaresimale?
Queste domande ne presuppongono un’altra nella quale dobbiamo brevemente
trattenerci. Nella commemorazione degli avvenimenti della vita del Cristo, la
Chiesa molto spesso, se non sempre, trasferisce il passato nel presente. Così
nel giorno del Natale cantiamo: “Oggi la Vergine dà alla luce...”; il
Venerdì Santo: “Oggi sta davanti a Pilato...”; nella Domenica delle Palme:
“Oggi egli viene a Gerusalemme...”. Da qui la domanda: qual è il
significato di tale trasposizione, il senso di questo “oggi” liturgico? La stragrande
maggioranza di coloro che frequentano la chiesa probabilmente l’interpreta come
una metafora retorica, come una “figura poetica”. Il nostro moderno
accostamento al culto è o razionale osentimentale. L’accostamento razionale consiste
nel ridurre la celebrazione liturgica a “idee”. Esso ha le radici nella
teologia “occidentalizzante” che s’è sviluppata nell’Oriente ortodosso dopo il
tramonto dell’età patristica, per la quale la liturgia è, nel migliore dei
casi, materiale rozzo per ordinate definizioni e proposizioni intellettuali.
Quello che nel culto non può essere ridotto ad una verità intellettuale è
etichettato come “poesia”, cioè come qualcosa da non prendersi troppo
seriamente. E poiché è ovvio che gli avvenimenti commemorati dalla Chiesa appartengono
al passato, all’oggiliturgico non viene attribuito alcun significato serio. Per
quanto concerne l’accostamento sentimentale, esso è il risultato di una
pietà individualistica e concentrata nell’io, che è in molti casi la
sostituzione della teologia intellettuale. Per questo genere di pietà il culto
è soprattutto un’utile cornice per la preghiera personale, uno sfondo
ispiratore il cui fine consiste nel “riscaldare” il nostro cuore e dirigerlo
verso Dio. Il contenuto ed il significato degli uffici liturgici, dei testi
sacri, dei riti e delle azioni sono in questo caso di secondaria importanza,
essi sono utili ed adeguati finché mi fanno pregare! Ed in tal modo l’oggiliturgico
si dissolve come se fossero tutti gli altri testi liturgici una specie di “preghiera”
indifferentemente devozionale ed ispirata. A causa della lunga consuetudine
della nostra mentalità ecclesiastica con questi due modi di accostarsi
all’ufficio liturgico oggi è molto difficile dimostrare che la reale liturgia
della Chiesa non puòessere ridotta né a “idee” né ad una “preghiera”; non
si possono celebrare idee! Per quanto riguarda la preghiera personale, non è
detto nell’Evangelo che quando desideriamo pregare dobbiamo chiuderci nella
nostra camera ed entrare lì in comunione personale con Dio? (cfr. Matteo 6, 6).
Il concetto di celebrazione implica un avvenimento e la reazione sociale o di
ciascun membro ad esso. Una celebrazione è possibile solo quando la gente si
raduna insieme e, trascendendo la separazione naturale e l’isolamento reciproco,
reagisce insieme come un corpo, come fa una persona di fronte ad un avvenimento
(per esempio l’arrivo della primavera, un matrimonio, un funerale, una
vittoria, ecc...). Ed il miracolo naturale di ogni celebrazione consiste
precisamente nel fatto che essa trascende, sia pur per un tempo determinato, il
livello delle idee e quello dell’individualismo. Nella celebrazione si perde
davvero se stessi e si trovano gli altri, in un’unica via. Ma qual è il
significato dell’Oggi liturgico con cui la Chiesa inaugura tutte le sue
celebrazioni? In che senso sono passati gli eventi celebrati Oggi? Si può
dire, senza paura di esagerazione, che tutta la vita della Chiesa è una
continua commemorazione e memoria. Alla fine di ogni ufficio
divino ci ricordiamo i nomi dei santi “di cui celebriamo la memoria”; ma,
dietro a tutte queste memorie, è la Chiesa ad essere il memoriale di
Cristo. Da un punto di vista puramente naturale, la memoria è una facoltà
ambigua. Così, il ricordare qualcuno che amiamo e che abbiamo perduto significa
due cose. Da un lato la memoria è molto più che una semplice conoscenza del
passato. Quando io ricordo mio defunto padre, io lo vedo: egli è presente nella
mia memoria, non come una somma totale di tutto ciò che conosco di lui, bensì
in tutta la sua realtà vivente. Tuttavia, d’altra parte, è proprio questa
presenza che mi fa sentire acutamente che egli non è più qui, che mai più su
questa terra toccherò quella mano che vedo così vividamente nella mia memoria.
La memoria è così la più meravigliosa e nello stesso tempo la più tragica di
tutte le facoltà umane, poiché nulla rivela meglio la natura spezzata della
nostra vita, l’impossibilità per l’uomo di conservare realmente e di possedere
davvero qualcosa in questo mondo. La memoria ci rivela che il “tempo e la morte
regnano sulla terra”. Ma è appunto a causa di questa funzione unicamente umana
della memoria, che i Cristiani si concentrano su di essa, poiché essa consiste
in primo luogo nel far memoria di un Uomo, di un Evento, di una Notte, nella cui
profondità e oscurità ci venne detto: “...fate questo in memoria di me”. Ed
ecco, il miracolo si realizza! Noi facciamo memoria di Lui ed Egli è qui: non
come un’immagine nostalgica del passato, non come un triste “non più”, ma con
tale intensità di presenza, che la Chiesa può eternamente ripetere le parole
dei discepoli di Emmaus: “Non bruciavano i nostri cuori nel petto...?” (Luca
24, 32). La memoria naturale è in primo luogo la “presenza di un assente”, cosi
che quanto più colui che ricordiamo è presente, tanto più acuta è la sofferenza
per la sua assenza. Ma, nel Cristo, la memoria è diventata di nuovo la facoltà
di ricomporre il tempo spezzato dal peccato e dalla morte, dall’odio e
dall’oblio. Ed è questa memoria nuova in quanto potere superiore sul tempo e
sulla sua frantumazione, che si trova al centro della celebrazione liturgica,
dell’oggi liturgico. Certo, non c’è dubbio, la Vergine non dà alla luce
oggi; nessuno, attualmente, sta di fronte a Pilato; ed in quanto fatti, questi
eventi appartengono al passato. Ma oggi noi possiamo far memoria di
questi fatti e la Chiesa è in primo luogo il dono e il potere di questa memoria
che trasforma i fatti del passato in eventi di una portata eterna. La
celebrazione liturgica è così un ri-entrare della Chiesa nell’evento e ciò non
significa soltanto la sua “idea”, ma la sua gioia o la sua tristezza, la sua
vita e la sua concreta realtà. Una cosa è il sapere che con il grido “Dio mio,
Dio mio, perché mi hai abbandonato?” il Cristo crocifisso manifestò la sua “kenosis”
e la sua umiltà. Ma è una cosa del tutto diversa celebrarlo ogni anno in quel
Venerdì unico in cui, nel quale senza cercar di razionalizzare, sappiamo con
assoluta certezza che queste parole, proferite una volta per tutte, rimangono
eternamente reali così che nessuna vittoria, nessuna gloria, nessuna “sintesi”
potranno mai cancellarle. Una cosa è spiegare che la risurrezione di Lazzaro
aveva lo scopo di “confermare la risurrezione universale” (cfr. il Tropario del
giorno): una cosa ben diversa è celebrare giorno dopo giorno, per un’intera
settimana, questo lento approssimarsi dell’incontro tra la vita e la morte, il
divenire parte di esso, il vedere con i nostri stessi occhi e il sentire con
tutto il nostro essere ciò che comportano le parole di Giovanni: “Egli
gemeva nel suo spirito, era turbato e... piangeva” (Giovanni 11, 33-35).
Per noi e a noi tutto ciò accade oggi. Noi non eravamo lì a Betania,
presso la tomba, con le sorelle di Lazzaro che gridavano in pianto. L’Evangelo
ce ne dà solamente conoscenza. Ma nella celebrazione della Chiesa, oggi,
accade che un fatto storico divenga un evento per noi, per me, un
effetto nella mia vita, una memoria, una gioia. La teologia non può spingersi
oltre l’-idea-. E dal punto di vista dell’idea, abbiamo forse bisogno di questi
cinque lunghi giorni, quando è sufficiente dire che la risurrezione di Lazzaro
aveva lo scopo di “confermare la risurrezione universale”? Ma il punto sta
proprio qui: che in sé e per sé questa affermazione non conferma niente. La
vera “conferma” viene dalla celebrazione, e precisamente da quei cinque giorni
durante i quali noi siamo testimoni dell’inizio di questa lotta mortale fra la
vita e la morte e cominciamo non solo a capire quanto a essere testimoni del
Cristo che sta andando a mettere a morte la morte. La risurrezione di Lazzaro,
la meravigliosa celebrazione di questo sabato unico, è al di là della Quaresima.
Il venerdì che lo precede cantiamo: “Avendo portato a termine gli edificanti
quaranta giorni...” e, in termini liturgici, il sabato di Lazzaro e la Domenica
delle Palme sono il preludio della croce. Ma l’ultima settimana di Quaresima,
che è una continua pre-celebrazione di questi giorni, è la rivelazione
definitiva del significato della Quaresima. Abbiamo più volte detto che la
Quaresima è la preparazione alla Pasqua; in realtà, però, nella comune
esperienza, che per noi ora è divenuta ormai tradizionale, questa preparazione
rimane astratta ed è tale solo di nome. La Quaresima e la Pasqua sono poste
l’una accanto all’altra, ma senza una reale comprensione del loro legame e
della loro interdipendenza. Anche se la Quaresima non è intesa come il periodo
dell’adempimento della Confessione e della Comunione annuale, è di solito
pensata in termini di sforzo individuale, anche solo così essa resta incentrata
su se stessa. In altre parole, ciò che sembra virtualmente assente dalla nostra
esperienza quaresimale è quello sforzo fisico e spirituale finalizzato alla
nostra partecipazione all’oggi della Risurrezione del Cristo; non una
moralità astratta, né un progresso morale, non un maggior controllo delle
passioni e neppure un perfezionamento personale, bensì la partecipazione all’oggi ultimo
e totale del Cristo che tutto abbraccia. Una spiritualità cristiana che non
mirasse a questo rischierebbe di diventare pseudo-cristiana, poiché, in ultima
analisi, sarebbe motivata dall’“io” e non da Cristo. Vi è il pericolo che, una
volta purificata la dimora del cuore, fatta pulita e liberata dal demonio che
l’abitava, essa resti vuota e il demonio vi ritorni “prendendo con sé
altri sette spiriti peggiori di lui, ed essi entrino e vi alloggino e la
condizione finale di quell’uomo diventi peggiore della prima” (Luca 11,
26). In questo mondo ogni cosa, ed anche la “spiritualità” può essere
demoniaca. Pertanto è molto importante recuperare il significato ed il ritorno
della Quaresima quale autentica preparazione al grande oggi di
Pasqua. Abbiamo visto ora che la Quaresima è divisa in due parti. Prima della
Domenica della Croce la Chiesa ci invita a concentrare la nostra attenzione su
noi stessi, a lottare contro la carne e le passioni, contro il male e tutti gli
altri peccati. Ma, pur facendo questo, siamo costantemente esortati a guardare
avanti, a misurare e a motivare il nostro sforzo con “qualcosa di meglio”,
preparato per noi. Poi, a partire dalla Domenica della Croce, subentra il
mistero della sofferenza di Cristo, della sua croce e della sua morte, che
diventa il centro della celebrazione quaresimale. Essa diventa la “salita a
Gerusalemme”. Infine, durante quest’ultima settimana di preparazione, la
celebrazione del mistero ha inizio. Lo sforzo quaresimale ci ha resi capaci di
allontanare tutto ciò che abitualmente e continuamente oscura in maniera
consistente l’oggetto centrale della nostra fede, della nostra speranza e della
nostra gioia. Il tempo stesso, per così dire, arriva ad un termine. Esso è ora
misurato non in base alle nostre solite preoccupazioni ed affanni, ma da ciò
che avviene sulla via che porta a Betania e poi a Gerusalemme. E, una volta di
più, tutto questo non è retorica. Per colui che ha gustato la vera vita
liturgica, fosse pure una sola volta e anche in modo imperfetto, vien quasi da
sé che, a partire dal momento in cui udiamo: “Gioisci, o Betania, dimora
di Lazzaro...” e poi: “Domani il Cristo viene...”, il mondo esterno
diventi un po’ irreale e si provi quasi fatica a piegarsi alla necessità del
contatto quotidiano con esso. La “realtà” è ciò che avviene nella Chiesa, in
quella celebrazione che giorno dopo giorno ci fa capire che cosa significhi
attendere e perché il Cristianesimo sia, prima di tutto, attesa e preparazione.
Così, quando arriva quel venerdì sera e noi cantiamo: “Avendo portato a termine
gli edificanti quaranta giorni...”, non abbiamo semplicemente adempiuto a un
“obbligo” cristiano annuale; siamo pronti a far nostre le parole che canteremo
il giorno seguente:
“In Lazzaro, il Cristo già ti distrugge, o
Morte! E dov’è, o Inferno, la tua vittoria...?”.
da A. Schmemann, “The great Lent”, St.
Vladimir’s Seminary Press 1974, 79-85
La risurrezione di Lazzaro realizza la profezia di incredulità contenuta nella precedente parabola di Lazzaro e il ricco epulone e determina contemporaneamente la futura morte e risurrezione di Gesù in un processo ricorsivo, speculare che si incontra anche in altri punti del Vangelo. Cfr Ebook (amazon) di Ravecca Massimo: Tre uomini un volto: Gesù, Leonardo e Michelangelo.
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