È
oggi molto importante tornare all’idea e all’esperienza della Quaresima in
quanto viaggio spirituale, il cui scopo è di trasferirci da uno stato
spirituale ad un altro. All’inizio della Quaresima, come inaugurazione,
troviamo il “Canone di sant’Andrea di Creta”, il grande
canone penitenziale che è come il diapason che dà il tono all’intera melodia.
Diviso in quattro parti, viene letto al Grande Apodipnon (compieta), la sera
dei primi quattro giorni di Quaresima. Lo si può adeguatamente descrivere come
una lamentazione penitenziale, che ci rivela l’estensione e la profondità del
peccato, che scuote l’anima con la disperazione, il pentimento e la speranza.
Con un’arte straordinaria, sant’Andrea ha intrecciato i grandi temi biblici –
Adamo ed Eva, il paradiso e la caduta, Noè e il diluvio, i patriarchi, Davide,
la terra promessa, e infine Cristo e la Chiesa – con la confessione del peccato
e il pentimento. Gli eventi della storia sacra sono presentati come eventi
della mia vita, le azioni di Dio nel passato come azioni che
concernono me e la mia salvezza, la tragedia del peccato e
del tradimento come mia tragedia personale. La mia esistenza mi viene
mostrata come parte della lotta gigantesca e universale fra Dio e le potenze
delle tenebre che si rivoltano contro di lui.
Il Canone inizia con questa nota profondamente personale: “Da dove
comincerò a piangere sulle azioni abominevoli della mia vita? Quale fondamento
porrò, o Cristo, per questa lamentazione?”.
Uno dopo l’altro, i miei peccati vengono rivelati nel loro rapporto profondo
con il dramma perenne della relazione dell’uomo con Dio; la storia della caduta
dell’uomo è la mia storia: “Ho fatto mio il misfatto di Adamo; mi
riconosco privato di Dio, del Regno eterno e della beatitudine, a motivo dei
miei peccati...”.
Ho perduto tutti i doni divini: “Ho macchiato la veste del mio corpo, ho
oscurato l’immagine e la somiglianza di Dio... Ho ottenebrato la bellezza della
mia anima; ho lacerato la mia prima veste intessuta per me da Creatore, ed
eccomi nella nudità...”.
Così, per quattro sere consecutive, le nove odi del Canone mi dicono e ridicono
la storia spirituale del mondo che è anche la mia storia. Esse mi confrontano
con gli eventi e le azioni decisive del passato, il cui significato e la cui
portata, tuttavia, sono eterni, perché ogni anima umana – unica e
insostituibile – passa attraverso lo stesso dramma, si trova ad affrontare le
stesse scelte fondamentali, scopre la stessa realtà ultima. Gli esempi
scritturistici sono ben più di semplici “allegorie”, come pensano tanti, i
quali trovano, perciò, questo Canone “sovraccarico”, troppo appesantito da nomi
ed episodi irrilevanti. Perché parlare, si chiedono molti, di Caino e Abele, di
Davide e Salomone, quando sarebbe tanto più semplice dire “Ho peccato”? ciò che
non comprendono, però, è che la parola stessa peccato ha, nella tradizione
biblica e cristiana, una profondità e una densità che l’uomo “moderno” è
incapace di cogliere e che fa della sua confessione dei peccati qualcosa di
molto differente dal vero pentimento cristiano. La cultura in cui viviamo e che
modella la nostra visione del mondo esclude in effetti la nozione di peccato.
Perché, se il peccato è innanzitutto la caduta dell’uomo da un’altezza
incredibilmente elevata, se è il rigetto da parte dell’uomo della sua “alta
vocazione”, ch e cosa può significare tutto questo all’interno di una cultura
che ignora e nega questa “altezza” e questa “vocazione”, e definisce l’uomo non
a partire “dall’alto”, bensì “dal basso”? Che spazio può avere in una cultura
che, anche quando non nega Dio apertamente, è di fatto materialistica da cima a
fondo e pensa la vita dell’uomo esclusivamente in termini di beni materiali
ignorandone la vocazione trascendente? Il peccato, in tale contesto, è visto in
primo luogo come una “debolezza” naturale, dovuta di solito a un
“disadattamento”, il quale, a sua volta, ha delle radici sociali e può, quindi
essere eliminato da una migliore organizzazione sociale ed economica. Per
questo, anche quando confessa i propri peccati, l’uomo “moderno” non si pente
più: in base alla comprensione che egli ha della religione, o enumera in modo
formale delle trasgressioni formali a regole formali, oppure comunica i propri
“problemi” al confessore, attendendosi dalla religione qualche trattamento
terapeutico che lo renda di nuovo felice e ben inserito nel suo ambiente. Ma in nessuno dei
due casi abbiamo il pentimento come esperienza sconvolgente di colui che vede
in se stesso “l’immagine della gloria ineffabile” e si rende conto di averla
deturpata, tradita e rifiutata nella propria vita; come dispiacere che viene
dal più profondo della coscienza dell’uomo, come desiderio di ritornare, come
un arrendersi all’amore e alla misericordia di Dio. Questo il motivo per cui
non è sufficiente dire: “Ho peccato”. Una tale confessione prende significato ed
efficacia solo se il peccato è compreso e sperimentato in tutta la sua
profondità e tristezza.
Scopo del Grande Canone è proprio quello di rivelarci il peccato e di condurci
così al pentimento; ed esso lo svolge non attraverso definizioni ed enumerazioni,
bensì attraverso una profonda meditazione sulla grande storia biblica, che è,
in effetti, la storia del peccato, del pentimento e del perdono. Questa
meditazione ci introduce in un mondo spirituale diverso, ci confronta con una
visione totalmente differente dell’uomo, della sua vita, delle sue mete e delle
sue motivazioni. Essa ristabilisce in noi il quadro spirituale fondamentale,
all’interno del quale ridiventa possibile il pentimento. Per esempio, quando
noi ascoltiamo: “Non ho fatto mia la giustizia di Abele, o Gesù, non ti ho
offerto un dono accettabile né un’azione divina né un sacrificio puro né una
vita immacolata...”, noi comprendiamo che la storia del primo sacrificio,
ricordato in forma così breve dalla Bibbia, rivela qualcosa di essenziale
riguardo alla nostra propria vita, riguardo all’uomo stesso. Comprendiamo che
il peccato è innanzitutto il rifiuto della vita in quanto offerta o sacrificio
a Dio o, in altri termini, il rifiuto dell’orientamento della vita a Dio; che
il peccato, quindi, è, nelle sue radici, la deviazione del nostro amore dal suo
fine ultimo. È questa rivelazione che ci permette allora di affermare qualcosa
che è profondamente rimosso dalla nostra esperienza “moderna” della vita, ma
che ora diventa “esistenzialmente” vero: “Riempiendo di vita la polvere,
tu mi hai dato carne ed ossa alitando il tuo soffio di vita. O Creatore,
Redentore e Giudice, accetta il mio pentimento...”.
Per ascoltare in modo appropriato il Grande Canone è necessario aver
indubbiamente una certa conoscenza della Bibbia e la capacità di meditare sul
significato che essa ha per noi. Se oggi tanti trovano la Bibbia noiosa e senza
interesse, è perché la loro fede non si nutre più alla sorgente delle sante
Scritture, che per i Padri della Chiesa erano la sorgente della fede. Dobbiamo
reimparare a penetrare nel mondo qual è rivelato dalla Bibbia e a vivere in
esso; e per questo non c’è via migliore di quella della liturgia della Chiesa,
che non solo ci trasmette gli insegnamenti biblici, ma ci rivela il modo di
vivere conforme alla Bibbia. Il viaggio quaresimale comincia così con un
ritorno al “punto di partenza”: il mondo della creazione, della caduta e della
redenzione; il mondo in cui tutte le cose parlano di Dio e ne riflettono la
gloria, in cui tutti gli eventi sono riferiti a Dio, in cui l’uomo trova la
vera dimensione della propria vita e, una volta trovata, si converte.
Il giovedì della quinta settimana, al Mattutino, udiamo ancora, ma questa volta
nella sua totalità, il Grande Canone. Se all’inizio della Quaresima esso era
come una porta aperta sul pentimento, ora, alla fine della Quaresima, esso
appare come una sintesi del pentimento e del suo compimento. Se all’inizio
l’abbiamo semplicemente ascoltato, ora – speriamo! – le sue
parole sono diventate le nostre parole, la nostra lamentazione, la nostra
speranza, il nostro pentimento, e anche il criterio del nostro sforzo
quaresimale, il metro con cui misurare il cammino fino ad ora percorso.
da A. Schmemann, Great
Lent, St. Vladimir’s Seminary Press 1974
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