Il
Santo Padre ha nominato Vescovo dell'Eparchia di Piana degli Albanesi di
Sicilia il Rev.do Giorgio Demetrio Gallaro, del clero dell'Eparchia di Newton
dei Greco-Melkiti (Stati Uniti d'America).
Il
Rev.do Giorgio Demetrio Gallaro è nato il 16 gennaio 1948 a Pozzallo, in
Sicilia (Italia). Ha compiuto gli studi medi e secondari presso il seminario di
Noto. Trasferitosi nel 1968 negli Stati Uniti d'America ha completato i corsi
teologici al Saint John Seminary of Los Angeles, California. È stato ordinato
diacono nel 1971 e presbitero nel 1972. Dopo aver servito per otto anni due
comunità parrocchiali nell'Arcidiocesi di Los Angeles, ha compiuto gli studi
superiori al Pontificio Istituto Orientale di Roma e alla Pontificia Università
di San Tommaso in Urbe, conseguendo il dottorato in diritto canonico orientale
e la licenza in teologia ecumenica. In seguito ha svolto attività di parrocchia
e d'insegnamento nella sua Eparchia Melkita di Newton, Massachussets, in quella
Ucraina di Stamford, Connecticut, e nell'Arcieparchia Rutena di Pittsburgh,
Pennsylvania. Dal 2011 è stato il Vice-Presidente della Società di Diritto
Orientale e dal 2013 Consultore della Congregazione per le Chiese Orientali. Al
presente svolge gli uffici di sincello per gli affari canonici e di vicario
giudiziale nell'Arcieparchia di Pittsburgh, di docente di diritto canonico e
teologia ecumenica al Seminario Bizantino Cattolico dei Santi Cirillo e Metodio
di Pittsburgh, e di giudice d'appello per l'Arcieparchia di Philadelphia degli
Ucraini.
http://www.news.va/en/news/245993
Al Neo Vescovo porgiamo i nostri più
calorosi auguri,
affinché
sia un buon Pastore per la chiesa Italo -Albanese di Piana
Questi tre giorni, che la
Chiesa chiama Grandi e Santi hanno uno scopo molto preciso all’interno dello
svolgimento liturgico della Santa Settimana. Essi dispongono tutte le sue
celebrazioni, nella prospettiva della Fine; ci ricordano il significato
escatologico della Pasqua. Molto spesso la Santa Settimana è considerata una
delle “belle tradizioni” o delle “abitudini”, una “parte” ovvia del nostro
calendario. La diamo per scontata e ne godiamo come di un evento annuale a noi
caro, che abbiamo “osservato” sin dall’infanzia, di cui ammiriamo la bellezza
delle ufficiature, lo sfarzo dei riti e, ultimo ma non meno importante, ci
piace il frastuono della tavola pasquale. E poi, quando tutto questo è stato
fatto riprendiamo la nostra normale vita. Ma abbiamo capito che, quando il
mondo ha respinto il suo Salvatore, quando “Gesù ha cominciato ad essere triste
e molto addolorato... e la sua anima è stata oltremodo triste fino alla morte”,
quando Egli è morto sulla croce, la “normale vita” è giunta alla sua fine e non
è più possibile. Poiché erano di quelli “normali” gli uomini che gridavano:
“Crocifiggilo!”, che lo schiaffeggiarono e lo inchiodarono alla Croce. Ed essi
lo hanno odiato ed ucciso proprio perché Lui stava turbando la loro vita
normale. È stato davvero un mondo perfettamente “normale”, che ha preferito le
tenebre alla luce e la morte e la vita... Con la morte di Gesù, il mondo
“normale”, e la “normale” vita sono stati condannati irrevocabilmente. O,
piuttosto è stata rivelata la loro vera e anormale incapacità di ricevere la
Luce, il terribile potere del male in essi. “Ora è il giudizio è di questo
mondo” (Giovanni 12, 31). La Pasqua di Gesù ha significato per “questo mondo”
la sua fine, ed è stato alla sua fine da allora. Questa fine può durare per
centinaia di secoli, ciò non altera la natura del tempo in cui viviamo come
“ultima volta”. “La forma di questo mondo passa...” (I Cor. 7, 31). Pasqua
significa passaggio. La festa di Pasqua, era per gli Ebrei la commemorazione
annuale di tutta la loro storia come salvezza, e della salvezza come passaggio
dalla schiavitù d’Egitto alla libertà, dall’esilio alla terra promessa. Era
inoltre l’anticipazione del passaggio finale – nel Regno di Dio. E Cristo era
il compimento della Pasqua. Lui ha compiuto l’ultimo passaggio: dalla morte
alla vita, da questo “vecchio mondo” in un nuovo mondo in un nuovo tempo,
quello del Regno. Ed ha aperto la possibilità di questo passaggio per noi. Pur
vivendo in “questo mondo” noi possiamo già essere “non di questo mondo”, cioè,
essere liberi dalla schiavitù della morte e del peccato, partecipi del “mondo a
venire”. Ma per questo dobbiamo anche effettuare il nostro passaggio, dobbiamo
condannare il vecchio Adamo in noi, dobbiamo immergerci in Cristo nella morte
battesimale e avere la nostra vera vita nascosta in Dio con Cristo, nel “mondo
a venire...”. E così la Pasqua non è una commemorazione annuale, solenne e
bella, di un evento passato. Essa è questo Evento che si è mostrato in sé
stesso, si è dato a noi, come sempre efficiente, rivelando sempre il nostro
mondo, il nostro tempo, la nostra vita come alla loro fine, e per annunciare il
Principio della nuova vita... E la funzione dei primi tre giorni della Santa
Settimana è proprio quella di sfidarci con questo significato ultimo della
Pasqua e prepararci alla comprensione e all’accettazione di esso. Questa sfida
escatologica (che vuol dire ultima, decisiva, finale) viene rivelata, in primo
luogo, nel comune tropario di questi giorni:
Tropario
– Tono 8:
Ecco
lo Sposo viene nel mezzo della notte, e beato è il servo che Egli trova a
vegliare e, invece, è indegno il servo che Egli trova noncurante. Guarda,
dunque, anima mia, di non lasciarti opprimere dal sonno, per non essere
consegnata alla morte e chiusa fuori del Regno! Ma, vegliando, grida: Santo, Santo,
Santo, sei tu, il nostro Dio! Per l’intercessione della Theotokos, abbi pietà
di noi!
Mezzanotte è il momento in cui
il vecchio giorno giunge alla fine e comincia un nuovo giorno. È quindi il
simbolo del tempo in cui viviamo come Cristiani. Infatti, da un lato, la Chiesa
è ancora in questo mondo, condividendo le sue debolezze e le sue tragedie. Ma,
dall’altro lato, il suo vero essere non è di questo mondo, perché lei è la
Sposa di Cristo e la sua missione è di annunciare e di rivelare la venuta del
Regno e del nuovo giorno. La sua vita è un perpetuo vegliare e attendere, una
veglia puntuale fino agli albori di questo nuovo giorno. Ma sappiamo ancora
quanto è forte il nostro attaccamento al “vecchio giorno”, al mondo con le sue
passioni e i suoi peccati. Sappiamo quanto profondamente apparteniamo ancora a
“questo mondo”. Abbiamo visto la luce; conosciamo Cristo, abbiamo sentito
parlare della pace e della gioia della vita nuova in Lui, ma ancora il mondo ci
tiene in schiavitù. Questa debolezza, questo costante tradimento di Cristo,
questa incapacità di dare la totalità del nostro amore all’unico vero oggetto
d’amore sono mirabilmente espressi nell’exapostilarion di questi tre giorni:
“La
tua Camera Nuziale vedo ornata, o mio Salvatore, ma non ho la veste nuziale per
poter entrare, o Datore di vita, illumina la veste della mia anima e salvami”.
Lo stesso tema si sviluppa
ulteriormente nelle letture evangeliche di questi giorni. Prima di tutto,
l’intero testo dei quattro Evangeli (fino a Giovanni 13, 31) è letto durante le
Ore (I, III, VI e IX). Questa ricapitolazione mostra che la Croce è il culmine
di tutta la vita e del ministero di Gesù, la chiave per la loro corretta
comprensione. Tutto nell’Evangelo porta a questa ultima ora di Gesù e tutto ciò
deve essere compreso alla sua luce. Poi, ogni ufficiatura ha la sua lettura
evangelica propria:
Il Lunedì:
Al Mattutino: Matteo 21, 18-43
– la storia dell’albero di fico, simbolo del mondo creato per recare frutti
spirituali e della sua mancata risposta a Dio. Alla Liturgia dei Doni
Presantificati: Matteo 24, 3-35: il grande discorso escatologico di Cristo. I
segni e l’annuncio della Fine. “Il cielo e la terra passeranno, ma le mie
parole non passeranno...”.
“Quando
il Signore stava andando alla Sua volontaria Passione, lungo la strada Egli
disse ai Suoi Apostoli: Ecco, noi saliamo a Gerusalemme, e il Figlio dell’Uomo
sarà innalzato come è scritto di Lui. Venite, dunque, e accompagnateci con Lui,
con la mente purificata dai piaceri di questa vita, e facciamoci crocifiggere e
moriamo con Lui, per così poter vivere con Lui, e poterlo ascoltare mentre ci
dice: ora io vado, non alla Gerusalemme terrena, per soffrire, ma fino al Padre
mio e Padre vostro e Dio mio e Dio vostro, e vi raccoglierò nella Gerusalemme
celeste, nel Regno dei Cieli…” (Mattutino del Lunedì).
Il Martedì:
Al Mattutino: Matteo da 22, 15
a 23, 39. Condanna dei farisei, cioè, della religione cieca e ipocrita, di
coloro che pensano di essere i “leaders” dell’uomo e la luce del mondo, ma che
in realtà “precludono agli uomini il Regno dei cieli”. Alla Liturgia dei
Presantificati: Matteo da 24, 36 a 26. Di nuovo la Fine e le parabole della
Fine: le dieci vergini sagge che avevano sufficiente olio nelle loro lampade e
le dieci stolte quelle che non sono state ammesse al banchetto nuziale; la
parabola dei dieci talenti. “Quindi siate anche voi pronti, perché nell’ora che
voi non pensate verrà il Figlio dell’uomo”. E, infine, il Giudizio Ultimo.
Il Mercoledì:
Al Mattutino: Gv 12, 17-50: il
rifiuto di Cristo; l’acuirsi del conflitto, l’ultimo avvertimento: «È ora il
giudizio di questo mondo… Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi
lo condanna: la parola che ho annunziato lo condannerà nell’ultimo giorno».
Alla Liturgia dei Presantificati: Mt 26, 6-16: la donna che versa il nardo di
grande valore su Gesù, immagine dell’amore e del pentimento che, solo, ci
unisce a Cristo. Queste letture dell’Evangelo sono spiegate ed elaborate
nell’innologia di questi giorni: gli stichira e i triodia (canoni brevi di tre odi
ognuno cantati al Mattutino). Un avvertimento, una esortazione le percorre
tutte: la fine e il giudizio si avvicinano, dobbiamo prepararci per loro:
“Ecco,
o anima mia, il Maestro ti ha conferito un talento. Ricevi il dono con timore;
presta a lui che ha dato; distribuisci ai poveri e acquista per te stessa il
tuo Signore, come tuo amico; che quando verrà nella gloria, con la potenza
della sua mano destra ti farà sentire la sua voce benedetta: Entra, mio servo,
nella gioia del tuo Signore”. (Mattutino del Martedì)
Durante tutta la Quaresima, i
due libri del Vecchio Testamento, Genesi e Proverbi, vengono letti ai Vespri.
Con l’inizio della Santa Settimana sono sostituiti da Esodo e Giobbe. L’Esodo è
la storia della liberazione di Israele dalla schiavitù egiziana, della sua
Pasqua. Esso ci prepara per la comprensione dell’esodo di Cristo al Padre Suo,
del Suo compimento di tutta la storia della salvezza. Giobbe, il Sofferente, è
l’Antico Testamento icona di Cristo. Questa lettura annuncia il grande mistero delle
sofferenze, dell’obbedienza e del sacrificio di Cristo. La struttura liturgica
di questi tre giorni è ancora di tipo quaresimale. Sono inclusi, quindi, la
preghiera di sant’Efrem il Siro con le prostrazioni, la lettura accresciuta del
Salterio, la Liturgia dei Doni Presantificati e il canto liturgico quaresimale.
Siamo ancora nel tempo del pentimento, perché solo il pentimento ci rende
partecipi della Pasqua di Nostro Signore, e ci apre le porte del banchetto
Pasquale. E dopo, il Santo e Grande Mercoledì, quando l’ultima liturgia dei
Doni Presantificati sta per essere completata, dopo che i Santi Doni sono stati
tolti dall’altare, il sacerdote recita per l’ultima volta la preghiera di
sant’Efrem. In questo momento, la preparazione giunge alla fine. Il Signore ci
chiama ora alla sua Ultima Cena.
Eccolo Sposo viene nel mezzo della notte, e beato è il servo che Egli trova
a vegliare e, invece, è indegno il servo che Egli trova noncurante. Guarda,
dunque, anima mia, di non lasciarti opprimere dal sonno, per non essere
consegnata alla morte e chiusa fuori del Regno! Ma, vegliando, grida: Santo,
Santo, Santo, sei tu, il nostro Dio!
’Ιδού ο Νυμφίος έρχεται εν τω μέσω της
νυκτόςκαι μακάριος ο δούλος, ον
ευρήσει γρηγορούνταανάξιος δε πάλιν ον ευρήσει ραθυμούντα.Βλέπε, ουν, ψυχή μου, μη τω ύπνω
κατενεχθής,ίνα μη τω θανάτω
παραδοθής και της Βασιλείας έξω κλεισθήςαλλά
ανάνηψον κράζουσαΆγιος, Άγιος,
Άγιος ει ο Θεός ημών
Nei
tre primi giorni della Settimana Santa nella tradizione bizantina, viene messa
in luce la figura di Cristo come Sposo, cioè le nozze di Dio con la Chiesa, con
l'umanità. Questo è un fatto comune a tutte le liturgie orientali: le
tradizioni siriache hanno una celebrazione chiamata “delle lampade” in cui
viene pure rappresentata liturgicamente nella chiesa la parabola delle dieci
vergini. Tutti i tre giorni commemorano qualche personaggio concreto: al Lunedì
Santo viene assegnata la memoria del patriarca Giuseppe, e del fico maledetto
da Gesù (Mt 21, 18); Giuseppe è figura di Gesù, venduto dai suoi fratelli,
portato alla sofferenza, esaltato da Dio che lo costituisce salvatore del suo
popolo. Per quanto riguarda il Martedì Santo, nella prospettiva del tema dello
Sposo, viene considerata la parabola delle dieci vergini (Mt 24-25). Il
Mercoledì Santo viene fatta memoria della donna peccatrice che unse i piedi di
Gesù (Mt 26,6-13). Al di là dell'identità della donna, che la liturgia non
chiarisce, il mistero teologico sottolineato nella liturgia bizantina è quello
della donna peccatrice che con le lacrime, con l'unzione con l'olio profumato -simboli
ambedue battesimali- arriva a contatto col Cristo incarnato, Dio e uomo,
contatto -sacramento- che la porta alla conversione; è ancora il Cristo Sposo
che va incontro alla sua Chiesa. Due testi centrano l'ufficiatura di questi tre
giorni: Ecco lo Sposo viene nel mezzo della notte, beato quel servo che troverà
vigilante, indegno quel servo che troverà negligente! Guarda dunque anima mia,
di non lasciarti opprimere dal sonno, per non essere consegnata alla morte e
chiusa fuori del Regno! Ma, vegliando, grida: Santo, Santo, Santo tu sei, o
Dio; per intercessione della Madre di Dio abbi pietà di noi. Il secondo
tropario: Vedo il tuo talamo adorno, o mio Salvatore, e non ho la veste per
entrare. Fa' risplendere la veste dell'anima mia, o tu che doni la luce, e
salvami!. Il tema dell'attesa
dello Sposo; i tropari rileggono Mt 25,6: lo Sposo che arriva nel mezzo della
notte. L’attesa del ritrovamento tra il vecchio Adamo, cacciato dal Paradiso
all’inizio della Quaresima, diventa adesso molto più pressante con l’uso
dell’immagine e del tema evangelico dell’arrivo e dell’incontro con lo Sposo,
uno Sposo il cui talamo nuziale è unicamente la croce. Se guardiamo le note di
alcune delle edizioni o delle diverse traduzioni che ci sono dell’ufficiatura
di questi giorni, vediamo come i testi non sono altro che un intreccio di
citazioni bibliche, dal Vecchio e dal Nuoto Testamento; nel tropario Ίδou Ò
Νυμφίoς ci sono ben cinque testi biblici dietro ( lo Sposo che arriva: Mt 25,6;
il servo che vigila: Lc 12,37; distacco dal sonno: Rm 13,11; la chiusura della
porta del Regno: Mt 25,10; il Dio tre volte santo: Is 6,3). Tre temi da
sottolineare in questo testo: Tema dell'attesa dello Sposo; il tropario rilegge
lo Sposo che arriva di Mt 25,6; l’attesa del ritrovamento tra il vecchio Adamo,
cacciato dal Paradiso all’inizio della Quaresima, diventa adesso molto più
pressante con l’uso dell’immagine e del tema evangelico dell’arrivo e
dell’incontro con lo Sposo, uno Sposo il cui talamo nuziale è unicamente la
croce, la sua croce; ricordate l’icona dello Sposo. Il secondo tema è
l’analogia che il tropario fa di sonno-morte; dietro c’è il testo di Lc 12,37,
il servo vigilante, e di Rm 13,11, il distacco dal sonno. L’arrivo dello Sposo
per il cristiano è il momento del suo trapasso, della sua morte; esso, lo
Sposo, arriverà nella notte nell'ora in cui il servo non sa, e per questo viene
chiesta la vigilanza, il guardare verso di Lui. Il terzo aspetto che troviamo
nel tropario è quello delle nozze divine e l'assoluta indegnità dell'uomo che
solo può entrare nella camera nuziale, il Regno, per la luce che viene da
Cristo. Il tema è una rilettura di Mt 25,10. Di fronte allo Sposo nel suo
talamo nuziale, cioè Cristo umiliato ed umile ai piedi della croce, il
cristiano si scopre dal tutto peccatore e durante la Quaresima l’abbiamo tante
volte chiesto al Signore di farci scoprire peccatori quando abbiamo ripetuto
fino a sazietà: dammi di vedere i miei peccati e di non condannare... Ma si
scopre pure amato e salvato da questo Dio umile ed umiliato. Per questo lo
acclama il Dio tre volte santo di Is 6,3.
Una
settimana prima di Pasqua, i credenti festeggiano la Domenica delle Palme,
giorno in cui ricordano l’entrata di Gesù Cristo a Gerusalemme: entrata
gloriosa e al tempo stesso piena di umiltà. Il popolo lo accoglie come un Re,
con grida di gioia, agitando rami di palme, e l’Evangelo dice: “Tutta la
città era commossa” (Matteo 21, 10). Ma era un Re che non disponeva di
alcun potere se non quello dell’amore, non aveva da dare altro che libertà e
gioia, non richiedeva che quello stesso amore, quella stessa libertà. “Ecco
viene a te il tuo re pieno di dolcezza”(Matteo 21, 5). L’Evangelo cita questo
testo del profeta Zaccaria, questa profezia viene letta durante l’ufficio della
Domenica delle Palme. E precisamente in questo incontro fra l’umiltà e la
regalità, il potere e l’amore, la gloria e la libertà, risiede il senso eterno
di questo avvenimento evangelico e di questa festa che la Chiesa chiama
“Entrata del Signore a Gerusalemme”. Come allora, il mondo attuale esalta
il dominio, la potenza, l’onore, la concorrenza. Allora come oggi ciascuno vuol
regnare sull’altro, comandare, dirigere, esercitare il proprio potere. “I
re delle nazioni – dice Cristo – dominano su di esse da padroni ed
esercitano il potere. Non deve essere così fra voi...” (Matteo 20, 55).
Spesso, riduttivamente, si vuol vedere nella religione in generale, e nel
cristianesimo in particolare, un insieme simultaneo di sete di sottomissione e
di potenza. Nella religione si vede l’abbassamento dell’uomo, una sottomissione
di schiavo di fronte ad un Assoluto terrificante. Dio è percepito come la
proiezione umana dell’asservimento e della tirannia, di tutto ciò che
avvilisce, schiavizza, opprime l’uomo. Si è costruita ed insegnata tutta una
serie di teorie sulla religione e la sua origine, sul modello dello
sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo, sui rapporti che lo legano ai
detentori del potere, sul suo carattere di classe. Per questo si collega la
liberazione dell’uomo ad una sua emancipazione nei confronti di questa ebbrezza
religiosa, di questo “oppio” che contribuirebbe a mortificare l’uomo
addormentandolo con la promessa di una ricompensa nell’aldilà, che lo
priverebbe di ogni volontà di lotta, di miglioramento della propria sorte sulla
terra, di liberazione da ogni sfruttamento... Ma che fare di una dottrina, di
una religione, che ci presenta Dio stesso nell’aspetto di un uomo povero e
umile? Quest’uomo, tuttavia, è assolutamente e integralmente libero. Dinanzi
a Dio dunque chiunque detiene un potere trema, freme e cerca di mobilitare
tutte le proprie forze per distruggere, respingere, annientare il terribile
insegnamento sull’amore, la libertà, la verità. Che fare di una religione che
non può in alcun modo stendersi su letto di Procuste delle teorie scientifiche
secondo le quali al cuore di ogni religione dovrebbe necessariamente trovarsi
la paura, la sottomissione cieca, l’asservimento? Ecco che avanza verso
Gerusalemme il Maestro povero, senza casa né tetto, senza un luogo ove posare
il capo. Ecco che Egli manda i suoi discepoli a cercargli un umile animale,
l’asinello da cavalcare, e questo è tutto il suo trionfo, questa la sua gloria!
Ed ecco che viene ad incontrarlo una folla immensa mentre tutta la città
risuona dei saluti tradizionalmente riservati ai re: “Osanna! Benedetto Colui
che viene nel nome del Signore!”. In quel momento egli non ebbe altro potere,
altra regalità: inutili ed assurdi tutti gli ammennicoli del potere umano, le
intimidazioni, le autoglorificazioni. Egli insegnava: “Imparate la verità
e la verità vi renderà liberi”. Tutto il suo insegnamento dimostra che non
esiste potere al mondo capace di spezzare interiormente e di asservire colui
che conosce la verità e che in essa ha acquistato la libertà. Si può
trasformare un intero paese in una prigione ed obbligare i popoli a tremare per
decine di anni. Viene il momento in cui la verità trionfa ed il potere trema.
Allora bisogna ancora mobilitare degli schiavi perché gridino: “Crocifiggeteli,
annientateli, chiudete la bocca a questi criminali”. Che fare in questo mondo
ove prima o poi la parola, la poesia, il pensiero sono più forti di tutti gli
“apparati”, di tutti i “poteri”... È tutto questo che ci riporta la Domenica
delle Palme, è questa libertà che costituisce l’essenziale di questa festa. Ci
dicono che la religione svia tutti i nostri interessi verso l’aldilà... ma il
Regno della libertà dell’amore e della verità si è levato sulla nostra terra.
Il Cristo è entrato in una città di questo mondo, ad accoglierlo ed acclamarlo
era gente di quaggiù. Egli ha insegnato che bisogna essere liberi qui ed
adesso, che adesso bisogna amare, che bisogna vincere ogni paura con l’amore,
che l’uomo realizza la propria eternità in questo mondo creato da Dio, colmo
della bellezza di Dio, e al quale Dio ha conferito un significato. Ed ogni
volta che nell’ufficio della vigilia, nella veglia della Domenica delle Palme,
nel momento solenne e gioioso in cui i fedeli che riempiono la chiesa levano le
palme nella luce dei ceri, nel momento in cui risuona di nuovo l’acclamazione
“Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore!”, in quel momento non
si commemora solo ciò che è avvenuto un tempo in un paese lontano... No!
Essi sono là ora e fanno giuramento di fedeltà al solo Re e all’unico Regno,
essi promettono di essere fedeli alla libertà, alla verità, all’amore che Egli
ha annunciato. O, più semplicemente essi riaffermano e annunciano la libertà
divina dell’uomo. Tutto il resto non esiste e non può soggiogare che nella
misura in cui non si oppone a questa libertà, a questo amore, a questa verità.
Sì, io mi sottometto ad ogni legge di questo mondo meno che a quella che nega
questa libertà... E a chi mi dirà che è la legge del potere legittimo io
risponderò che tutte le leggi e tutti i poteri sono tali solo nella misura in
cui essi stessi sono sotto la legge della libertà, dell’amore, della verità. La
Domenica delle Palme è la festa della liberazione, la festa del Regno di Dio,
venuto in tutta la sua forza, come annuncia l’Evangelo. Certo, noi sappiamo che
dopo la luce e la gioia di questo giorno ci immergeremo nella tristezza e nelle
tenebre della Grande e Santa Settimana. Il potere non perdonerà e non
dimenticherà il trionfo di Cristo. Lo condannerà a morte, farà di tutto per
estirpare fino all’ultima particella di questo terribile insegnamento.
Quest’appello alla libertà, all’amore, alla verità è insopportabile per il
potere. La Domenica delle Palme è “anticipazione della Croce“ come proclama uno
dei canti di questa festa. Ma noi sappiamo già che dal profondo del Venerdì
Santo sulla strada del Golgota, in cammino verso la sofferenza e la
crocifissione ci giungono le parole di Cristo: “Padre, l’ora è venuta:
glorifica il Figlio affinché il Figlio ti glorifichi” (Giovanni 17, 1-2)
da Alexander Schmemann, in “Le Messager Orthodoxe”, III-IV 1984; trad. J.
K.
Per
confermare la comune risurrezione, prima della tua passione, hai risuscitato
Lazzaro, o Cristo Dio, onde anche noi, come i fanciulli, portando i simboli
della vittoria, a Te, vincitore della morte, gridiamo: Osanna nel più alto dei
cieli, benedetto Colui che viene nel nome del Signore.
La sesta e ultima settimana di
Quaresima si chiama “Settimana delle Palme”. Nei sei giorni che precedono il
sabato di Lazzaro e la Domenica delle Palme, la liturgia della Chiesa ci fa
seguire il Cristo a cominciare dal suo primo annuncio della morte del suo amico
e dall’inizio del suo viaggio a Betania ed a Gerusalemme. Il tema ed il tono di
questa settimana sono annunciati al vespro della domenica precedente: “Cominciando
con zelo la sesta settimana di Quaresima, offriremo al Signore inni,
annunciando la festa delle palme, a lui che viene con gloria e potenza divina a
Gerusalemme per mettere a morte la morte...”. Il centro dell’attenzione è
Lazzaro, la sua malattia, la sua morte ed il dolore dei suoi congiunti e la
reazione del Cristo a tutto ciò. Così al lunedì leggiamo: “Oggi la
malattia di Lazzaro appare al Cristo mentre egli cammina sull’altra riva del
Giordano...”. Al martedì udiamo le parole: “Ieri ed oggi Lazzaro è
malato...”. Al mercoledì si legge: “Oggi Lazzaro morto è portato alla
sepoltura ed i suoi congiunti piangono...”. Al giovedì: “Due giorni or
sono Lazzaro è morto...”. Infine al venerdì: “Domani il Cristo viene a
sollevare il fratello morto (di Marta e Maria)...”. Tutta la settimana passa
così nella contemplazione spirituale del prossimo incontro tra Cristo e la
morte, dapprima nella persona del suo amico Lazzaro, poi nella morte del Cristo
stesso. È l’avvicinarsi di quell’ora del Cristo di cui egli stesso ha parlato e
verso la quale era rivolto tutto il suo ministero terreno. Dobbiamo dunque
chiederci: Qual è il posto ed il significato di questa contemplazione nella
liturgia quaresimale? In che rapporto sta con il nostro sforzo quaresimale?
Queste domande ne presuppongono un’altra nella quale dobbiamo brevemente
trattenerci. Nella commemorazione degli avvenimenti della vita del Cristo, la
Chiesa molto spesso, se non sempre, trasferisce il passato nel presente. Così
nel giorno del Natale cantiamo: “Oggi la Vergine dà alla luce...”; il
Venerdì Santo: “Oggi sta davanti a Pilato...”; nella Domenica delle Palme:
“Oggi egli viene a Gerusalemme...”. Da qui la domanda: qual è il
significato di tale trasposizione, il senso di questo “oggi” liturgico? La stragrande
maggioranza di coloro che frequentano la chiesa probabilmente l’interpreta come
una metafora retorica, come una “figura poetica”. Il nostro moderno
accostamento al culto è o razionale osentimentale. L’accostamento razionale consiste
nel ridurre la celebrazione liturgica a “idee”. Esso ha le radici nella
teologia “occidentalizzante” che s’è sviluppata nell’Oriente ortodosso dopo il
tramonto dell’età patristica, per la quale la liturgia è, nel migliore dei
casi, materiale rozzo per ordinate definizioni e proposizioni intellettuali.
Quello che nel culto non può essere ridotto ad una verità intellettuale è
etichettato come “poesia”, cioè come qualcosa da non prendersi troppo
seriamente. E poiché è ovvio che gli avvenimenti commemorati dalla Chiesa appartengono
al passato, all’oggiliturgico non viene attribuito alcun significato serio. Per
quanto concerne l’accostamento sentimentale, esso è il risultato di una
pietà individualistica e concentrata nell’io, che è in molti casi la
sostituzione della teologia intellettuale. Per questo genere di pietà il culto
è soprattutto un’utile cornice per la preghiera personale, uno sfondo
ispiratore il cui fine consiste nel “riscaldare” il nostro cuore e dirigerlo
verso Dio. Il contenuto ed il significato degli uffici liturgici, dei testi
sacri, dei riti e delle azioni sono in questo caso di secondaria importanza,
essi sono utili ed adeguati finché mi fanno pregare! Ed in tal modo l’oggiliturgico
si dissolve come se fossero tutti gli altri testi liturgici una specie di “preghiera”
indifferentemente devozionale ed ispirata. A causa della lunga consuetudine
della nostra mentalità ecclesiastica con questi due modi di accostarsi
all’ufficio liturgico oggi è molto difficile dimostrare che la reale liturgia
della Chiesa non puòessere ridotta né a “idee” né ad una “preghiera”; non
si possono celebrare idee! Per quanto riguarda la preghiera personale, non è
detto nell’Evangelo che quando desideriamo pregare dobbiamo chiuderci nella
nostra camera ed entrare lì in comunione personale con Dio? (cfr. Matteo 6, 6).
Il concetto di celebrazione implica un avvenimento e la reazione sociale o di
ciascun membro ad esso. Una celebrazione è possibile solo quando la gente si
raduna insieme e, trascendendo la separazione naturale e l’isolamento reciproco,
reagisce insieme come un corpo, come fa una persona di fronte ad un avvenimento
(per esempio l’arrivo della primavera, un matrimonio, un funerale, una
vittoria, ecc...). Ed il miracolo naturale di ogni celebrazione consiste
precisamente nel fatto che essa trascende, sia pur per un tempo determinato, il
livello delle idee e quello dell’individualismo. Nella celebrazione si perde
davvero se stessi e si trovano gli altri, in un’unica via. Ma qual è il
significato dell’Oggi liturgico con cui la Chiesa inaugura tutte le sue
celebrazioni? In che senso sono passati gli eventi celebrati Oggi? Si può
dire, senza paura di esagerazione, che tutta la vita della Chiesa è una
continua commemorazione e memoria. Alla fine di ogni ufficio
divino ci ricordiamo i nomi dei santi “di cui celebriamo la memoria”; ma,
dietro a tutte queste memorie, è la Chiesa ad essere il memoriale di
Cristo. Da un punto di vista puramente naturale, la memoria è una facoltà
ambigua. Così, il ricordare qualcuno che amiamo e che abbiamo perduto significa
due cose. Da un lato la memoria è molto più che una semplice conoscenza del
passato. Quando io ricordo mio defunto padre, io lo vedo: egli è presente nella
mia memoria, non come una somma totale di tutto ciò che conosco di lui, bensì
in tutta la sua realtà vivente. Tuttavia, d’altra parte, è proprio questa
presenza che mi fa sentire acutamente che egli non è più qui, che mai più su
questa terra toccherò quella mano che vedo così vividamente nella mia memoria.
La memoria è così la più meravigliosa e nello stesso tempo la più tragica di
tutte le facoltà umane, poiché nulla rivela meglio la natura spezzata della
nostra vita, l’impossibilità per l’uomo di conservare realmente e di possedere
davvero qualcosa in questo mondo. La memoria ci rivela che il “tempo e la morte
regnano sulla terra”. Ma è appunto a causa di questa funzione unicamente umana
della memoria, che i Cristiani si concentrano su di essa, poiché essa consiste
in primo luogo nel far memoria di un Uomo, di un Evento, di una Notte, nella cui
profondità e oscurità ci venne detto: “...fate questo in memoria di me”. Ed
ecco, il miracolo si realizza! Noi facciamo memoria di Lui ed Egli è qui: non
come un’immagine nostalgica del passato, non come un triste “non più”, ma con
tale intensità di presenza, che la Chiesa può eternamente ripetere le parole
dei discepoli di Emmaus: “Non bruciavano i nostri cuori nel petto...?” (Luca
24, 32). La memoria naturale è in primo luogo la “presenza di un assente”, cosi
che quanto più colui che ricordiamo è presente, tanto più acuta è la sofferenza
per la sua assenza. Ma, nel Cristo, la memoria è diventata di nuovo la facoltà
di ricomporre il tempo spezzato dal peccato e dalla morte, dall’odio e
dall’oblio. Ed è questa memoria nuova in quanto potere superiore sul tempo e
sulla sua frantumazione, che si trova al centro della celebrazione liturgica,
dell’oggi liturgico. Certo, non c’è dubbio, la Vergine non dà alla luce
oggi; nessuno, attualmente, sta di fronte a Pilato; ed in quanto fatti, questi
eventi appartengono al passato. Ma oggi noi possiamo far memoria di
questi fatti e la Chiesa è in primo luogo il dono e il potere di questa memoria
che trasforma i fatti del passato in eventi di una portata eterna. La
celebrazione liturgica è così un ri-entrare della Chiesa nell’evento e ciò non
significa soltanto la sua “idea”, ma la sua gioia o la sua tristezza, la sua
vita e la sua concreta realtà. Una cosa è il sapere che con il grido “Dio mio,
Dio mio, perché mi hai abbandonato?” il Cristo crocifisso manifestò la sua “kenosis”
e la sua umiltà. Ma è una cosa del tutto diversa celebrarlo ogni anno in quel
Venerdì unico in cui, nel quale senza cercar di razionalizzare, sappiamo con
assoluta certezza che queste parole, proferite una volta per tutte, rimangono
eternamente reali così che nessuna vittoria, nessuna gloria, nessuna “sintesi”
potranno mai cancellarle. Una cosa è spiegare che la risurrezione di Lazzaro
aveva lo scopo di “confermare la risurrezione universale” (cfr. il Tropario del
giorno): una cosa ben diversa è celebrare giorno dopo giorno, per un’intera
settimana, questo lento approssimarsi dell’incontro tra la vita e la morte, il
divenire parte di esso, il vedere con i nostri stessi occhi e il sentire con
tutto il nostro essere ciò che comportano le parole di Giovanni: “Egli
gemeva nel suo spirito, era turbato e... piangeva” (Giovanni 11, 33-35).
Per noi e a noi tutto ciò accade oggi. Noi non eravamo lì a Betania,
presso la tomba, con le sorelle di Lazzaro che gridavano in pianto. L’Evangelo
ce ne dà solamente conoscenza. Ma nella celebrazione della Chiesa, oggi,
accade che un fatto storico divenga un evento per noi, per me, un
effetto nella mia vita, una memoria, una gioia. La teologia non può spingersi
oltre l’-idea-. E dal punto di vista dell’idea, abbiamo forse bisogno di questi
cinque lunghi giorni, quando è sufficiente dire che la risurrezione di Lazzaro
aveva lo scopo di “confermare la risurrezione universale”? Ma il punto sta
proprio qui: che in sé e per sé questa affermazione non conferma niente. La
vera “conferma” viene dalla celebrazione, e precisamente da quei cinque giorni
durante i quali noi siamo testimoni dell’inizio di questa lotta mortale fra la
vita e la morte e cominciamo non solo a capire quanto a essere testimoni del
Cristo che sta andando a mettere a morte la morte. La risurrezione di Lazzaro,
la meravigliosa celebrazione di questo sabato unico, è al di là della Quaresima.
Il venerdì che lo precede cantiamo: “Avendo portato a termine gli edificanti
quaranta giorni...” e, in termini liturgici, il sabato di Lazzaro e la Domenica
delle Palme sono il preludio della croce. Ma l’ultima settimana di Quaresima,
che è una continua pre-celebrazione di questi giorni, è la rivelazione
definitiva del significato della Quaresima. Abbiamo più volte detto che la
Quaresima è la preparazione alla Pasqua; in realtà, però, nella comune
esperienza, che per noi ora è divenuta ormai tradizionale, questa preparazione
rimane astratta ed è tale solo di nome. La Quaresima e la Pasqua sono poste
l’una accanto all’altra, ma senza una reale comprensione del loro legame e
della loro interdipendenza. Anche se la Quaresima non è intesa come il periodo
dell’adempimento della Confessione e della Comunione annuale, è di solito
pensata in termini di sforzo individuale, anche solo così essa resta incentrata
su se stessa. In altre parole, ciò che sembra virtualmente assente dalla nostra
esperienza quaresimale è quello sforzo fisico e spirituale finalizzato alla
nostra partecipazione all’oggi della Risurrezione del Cristo; non una
moralità astratta, né un progresso morale, non un maggior controllo delle
passioni e neppure un perfezionamento personale, bensì la partecipazione all’oggi ultimo
e totale del Cristo che tutto abbraccia. Una spiritualità cristiana che non
mirasse a questo rischierebbe di diventare pseudo-cristiana, poiché, in ultima
analisi, sarebbe motivata dall’“io” e non da Cristo. Vi è il pericolo che, una
volta purificata la dimora del cuore, fatta pulita e liberata dal demonio che
l’abitava, essa resti vuota e il demonio vi ritorni “prendendo con sé
altri sette spiriti peggiori di lui, ed essi entrino e vi alloggino e la
condizione finale di quell’uomo diventi peggiore della prima” (Luca 11,
26). In questo mondo ogni cosa, ed anche la “spiritualità” può essere
demoniaca. Pertanto è molto importante recuperare il significato ed il ritorno
della Quaresima quale autentica preparazione al grande oggi di
Pasqua. Abbiamo visto ora che la Quaresima è divisa in due parti. Prima della
Domenica della Croce la Chiesa ci invita a concentrare la nostra attenzione su
noi stessi, a lottare contro la carne e le passioni, contro il male e tutti gli
altri peccati. Ma, pur facendo questo, siamo costantemente esortati a guardare
avanti, a misurare e a motivare il nostro sforzo con “qualcosa di meglio”,
preparato per noi. Poi, a partire dalla Domenica della Croce, subentra il
mistero della sofferenza di Cristo, della sua croce e della sua morte, che
diventa il centro della celebrazione quaresimale. Essa diventa la “salita a
Gerusalemme”. Infine, durante quest’ultima settimana di preparazione, la
celebrazione del mistero ha inizio. Lo sforzo quaresimale ci ha resi capaci di
allontanare tutto ciò che abitualmente e continuamente oscura in maniera
consistente l’oggetto centrale della nostra fede, della nostra speranza e della
nostra gioia. Il tempo stesso, per così dire, arriva ad un termine. Esso è ora
misurato non in base alle nostre solite preoccupazioni ed affanni, ma da ciò
che avviene sulla via che porta a Betania e poi a Gerusalemme. E, una volta di
più, tutto questo non è retorica. Per colui che ha gustato la vera vita
liturgica, fosse pure una sola volta e anche in modo imperfetto, vien quasi da
sé che, a partire dal momento in cui udiamo: “Gioisci, o Betania, dimora
di Lazzaro...” e poi: “Domani il Cristo viene...”, il mondo esterno
diventi un po’ irreale e si provi quasi fatica a piegarsi alla necessità del
contatto quotidiano con esso. La “realtà” è ciò che avviene nella Chiesa, in
quella celebrazione che giorno dopo giorno ci fa capire che cosa significhi
attendere e perché il Cristianesimo sia, prima di tutto, attesa e preparazione.
Così, quando arriva quel venerdì sera e noi cantiamo: “Avendo portato a termine
gli edificanti quaranta giorni...”, non abbiamo semplicemente adempiuto a un
“obbligo” cristiano annuale; siamo pronti a far nostre le parole che canteremo
il giorno seguente:
“In Lazzaro, il Cristo già ti distrugge, o
Morte! E dov’è, o Inferno, la tua vittoria...?”.
da A. Schmemann, “The great Lent”, St.
Vladimir’s Seminary Press 1974, 79-85
L’Annunciazione! Un tempo, questo era uno dei
giorni più luminosi e gioiosi dell’anno, la festa che consapevolmente, e anche
inconsapevolmente, era collegata con una intuizione giubilante, raggiante di
una visione del mondo e della vita. L’Evangelo di Luca ricorda il racconto
dell’Annunciazione.
L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una
città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un
uomo il cui nome era Giuseppe, della casa di Davide, e la vergine si chiamava
Maria. E lui le si avvicinò e disse:
“Rallegrati, o piena di grazia, il Signore è con te!
Benedetta tu fra le donne!”. Ma ella fu turbata a questo dire e considerava
nella sua mente che cosa significasse un tale saluto. E l’angelo disse: “Non
temere, Maria, perché concepirai nel tuo seno e partorirai un figlio, e lo
chiamerai Gesù...”. E Maria disse all’angelo: “Come avverrà questo, dal momento
che non ho marito?”. E l’angelo disse: “Lo Spirito Santo scenderà su di Te, e
la potenza dell’Altissimo stenderà su te la sua ombra perciò, anche colui che
nascerà sarà chiamato Santo, Figlio di Dio. Ecco, Elisabetta, tua parente, ha
concepito anche lei un figlio nella sua vecchiaia; e questo è il sesto mese,
per lei, che era chiamata sterile; poiché nessuna parola di Dio rimarrà
impossibile». E Maria disse: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me
secondo la tua parola”. E l’angelo partì da lei. (Luca 1, 26-38)
Naturalmente, visto dalla prospettiva del
cosiddetto ateismo “scientifico” questo racconto evangelico fornisce abbondanti
motivi per parlare di “miti e leggende”. Il razionalista dirà: “Quando mai gli
angeli appaiono alle giovani donne e tengono conversazioni con loro? I credenti
davvero pensano che la gente del ventesimo secolo, che vive in una civiltà
tecnologica, possa credere questo? I credenti non riescono a vedere come questo
è sciocco, non scientifico e impossibile?”. Il credente ha sempre una sola
risposta a questo tipo di contraddittorio, di disprezzo e di messa in ridicolo:
sì, purtroppo, è impossibile provare questo nella vostra superficiale visione del
mondo. Finché le vostre argomentazioni su Dio e la religione rimangono a
livello superficiale di esperimenti chimici e formule matematiche vincerete
sempre facilmente. Ma la chimica e la matematica non sono di nessun aiuto a
provare o smentire alcunché nel regno di Dio e della religione. Nella lingua
della vostra scienza, le parole angelo, buona novella, gioia e umiltà sono
ovviamente completamente prive di senso. Ma perché limitare la discussione alla
religione? Più della metà di tutte le parole sono incomprensibili per la vostra
lingua razionalista, e quindi in aggiunta alla religione dovrete eliminare
tutta la poesia, la letteratura, la filosofia e la quasi totalità della
fantasia umana. Bramate il mondo intero per pensare come si fa, in termini di produzione
e di forze economiche, di collettivi e di programmi. Eppure il mondo non pensa
naturalmente in questo modo e deve essere ammanettato e costretto a farlo, o
meglio, sembra farlo. Dite che ogni immaginazione è falsa, perché
“l’immaginario” non esiste, eppure la fantasia è ciò che le persone hanno
sempre vissuto, vivono, e vivranno pure in futuro. Perché tutto quanto vi è di
più profondo e più essenziale nella vita è sempre stato espresso nel linguaggio
della fantasia. Io non pretendo di capire che cosa è un angelo, né, usando il
linguaggio limitato del razionalismo, posso spiegare ciò che è accaduto quasi
duemila anni fa in una piccola città della Galilea. Ma mi sembra che l’umanità
non ha mai dimenticato questa storia, che questi pochi versi sono stati
ripetutamente inseriti in innumerevoli dipinti, poesie e preghiere, e che hanno
ispirato e continuano ad ispirare. Questo significa, naturalmente, che la gente
ha sentito qualcosa di infinitamente importante per loro in queste parole, una
certa verità, che a quanto pare non potrebbe essere espressa in nessun’altro
modo che nel linguaggio infantile e gioioso dell’Evangelo di Luca. Qual è
questa verità? Che cosa è successo quando la giovane donna, che ha appena
passato l’infanzia, improvvisamente ha sentito – da quanto grande profondità,
da quale altezza trascendente! – quel saluto meraviglioso: “Rallegrati!”.
Perché questo è in verità il messaggio dell’angelo a Maria: Rallegrati! Il
mondo è pieno di numerosi libri sulla lotta e la concorrenza, ognuno che cerca
di dimostrare che la strada per la felicità è l’odio, e in nessuno di loro
potrete trovare la parola “gioia”. La gente non conosce nemmeno il significato
della parola. Ma la gioia stessa annunciata dall’angelo, rimane una forza
pulsante, che ha ancora il potere di stupire e scuotere i cuori umani. Entrate
in una chiesa alla vigilia dell’Annunciazione. State, attendete durante la
lunga ufficiatura come si sviluppa lentamente. Allora viene il momento in cui,
dopo la lunga attesa, dolcemente, con tale divina squisita bellezza il coro
inizia a cantare il consueto inno della festa, “Con la voce dell’Arcangelo Ti
gridiamo, o Sola pura: Rallegrati, o piena di grazia, il Signore è con Te!”.
Centinaia e centinaia di anni sono passati, e ancora, quando abbiamo sentito
questo invito a rallegrarci, la gioia ci riempie il cuore in una ondata di
calore. Ma che cosa è pressappoco questa gioia? Soprattutto ci rallegriamo per
la presenza stessa di questa stessa donna, il cui volto, la cui immagine, è
conosciuta in tutto il mondo, che guarda fisso su di noi dalle icone, e che è
diventata una delle figure più sublimi e più pure dell’arte e
dell’immaginazione umana. Ci rallegriamo nella sua risposta all’Angelo, per la
sua fedeltà, la purezza, l’integrità, per la sua oblazione totale e umiltà
sconfinata, che per sempre risuonano nelle sue parole: “Eccomi, sono la serva
del Signore, avvenga a me secondo la tua parola”. Ditemi, c’è qualche cosa in
questo mondo, in qualcosa della sua ricca e complessa storia, di più sublime e
più bello di questo essere umano? Maria, la Tuttapura, La piena di grazia, è
veramente Colei in cui, come canta la Chiesa, “gioisce tutta la Creazione”. La
Chiesa risponde alla menzogna sull’uomo, alla menzogna che lo riduce a terra e
ad appetito, a bassezza e brutalità, la menzogna che lo dice essere
definitivamente asservito alle leggi immutabili e impersonali della natura,
indicando l’immagine di Maria, la Tuttapura Madre di Dio, Colei a cui, secondo
le parole di un poeta russo, “l’effusione di dolci lacrime umane da traboccanti
cuori” è offerta in un flusso senza sosta. La menzogna continua a pervadere il
mondo, ma ci rallegriamo perché qui, nell’immagine di Maria, la menzogna è
mostrata per quello che è. Ci rallegriamo con gioia e meraviglia, perché questa
immagine è sempre con noi, come conforto ed incoraggiamento, ispirazione ed
aiuto. Ci rallegriamo perché guardando questa immagine, è così facile credere
nella celestiale bellezza del mondo e nella celestiale bellezza dell’uomo,
vocazione trascendente. La gioia della Annunciazione è sulla Buona Notizia
dell’angelo, che il popolo aveva trovato grazia presso Dio, e che presto, molto
presto, attraverso di lei, attraverso questa donna Galilea totalmente
sconosciuta, Dio avrebbe cominciato a compiere il mistero della redenzione del
mondo. Non ci sarebbero stati fragori o paura in sua presenza, ma sarebbe
venuto a lei nella gioia e nella pienezza dell’infanzia. Attraverso di lei un
bambino ora sarà Re: un bambino, debole indifeso, ma per mezzo di lui tutte le
potenze del male sono state per sempre spogliate del potere. Questo è ciò che
noi celebriamo nell’Annunciazione e perché la festa è sempre stata, e rimane,
così gioiosa e raggiante. Ma, ripeto, nulla di tutto ciò può essere compreso o
espresso nelle categorie limitate e nel linguaggio consueto dell’ateismo
“scientifico”, che ci porta a concludere che questo approccio volutamente e
arbitrariamente ha dichiarato un’intera dimensione dell’esperienza umana essere
inesistente, inutile e pericolosa, insieme con tutte le parole ed i concetti
utilizzati per esprimere tale esperienza. Per discutere questo metodo alle sue
proprie condizioni si dovrebbe come prima cosa scendere in un pozzo nero della
metropolitana, dove, poiché il cielo non può essere visto, la sua esistenza è
negata. Il sole non può essere visto, e così non c’è il sole. Tutto è sporco,
ripugnante, e scuro, e così la bellezza è sconosciuta e la sua esistenza
negata. È un luogo dove la gioia è impossibile, e così tutti sono ostili e
tristi. Ma se lasciate il pozzo e vi arrampicate fuori, improvvisamente vi
ritroverete nel bel mezzo di una chiesa clamorosamente gioiosa dove ancora una
volta si sente: “Con la voce dell’Arcangelo Ti gridiamo, o Sola Pura,
Rallegrati!”.
da:
Alexander Schmemann, The Celebration of Faith: The Virgin Mary, 28-32.
Quanto
del cammino fin qui percorso abbiamo fatto nostro? Quanta strada abbiamo fatto
sulla via della conversione? Tutto ciò che ci riguarda infatti sta per giungere
alla fine. D’ora in poi noi seguiamo i discepoli:“Mentre erano in viaggio per
salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro... (e disse loro:) ‘Ecco,
noi saliamo a Gerusalemme e il Figlio dell’Uomo sarà consegnato ai sommi
sacerdoti e agli scribi: lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani,
lo scherniranno, gli sputeranno addosso, lo flagelleranno e lo uccideranno; ma
dopo tre giorni risusciterà’” (Marco 10, 32-45). È l’evangelo della quinta
domenica. Abbiamo visto come già dalla terza domenica il tono delle liturgie
quaresimali sia cambiato. Se durante la prima parte della Quaresima lo sforzo
aveva di mira la nostra personale purificazione, ci è dato di capire ora che
questa purificazione non è fine a sé stessa, ma ci deve portare alla
contemplazione, alla comprensione e all’appropriazione del mistero della croce
e della risurrezione. Il significato del nostro sforzo ci è ora rivelato: si
tratta di partecipare a quel mistero a cui ci eravamo così assuefatti da darlo
per scontato, al punto da dimenticarlo. E mentre siamo alla sequela di Gesù che
sale a Gerusalemme insieme con i suoi discepoli, siamo “stupiti e pieni di
timore”.
da A.
Schmemann, Great Lent, St. Vladimir’s Seminary Press 1974
Sappiamo
che a 12 anni, Santa Maria Egiziaca abbandonò i genitori per andare ad
Alessandria. Qui condusse una vita molto dissoluta per diciassette anni finché
un giorno vide una nave prossima a far rotta, con a bordo un inconsueto
equipaggio. Chiese chi fossero e dove andassero. Le fu risposto che erano
pellegrini diretti a Gerusalemme per la festa dell’Esaltazione della S. Croce.
Salì anch’ella a bordo, e arrivati a destinazione, il giorno della cerimonia,
giunta sulla soglia del tempio, venne trattenuta da una forza misteriosa.
Impaurita, alzò gli occhi ad un’immagine della Santa Vergine, e fu colta da un
grande pentimento per la vita peccaminosa che aveva condotto fino ad allora.
Poté allora entrare in chiesa e adorare il sacro legno della Croce. Ma non vi restò
a lungo. «Se tu passi il Giordano troverai la pace», le aveva detto la Madonna.
E il giorno dopo, confessata e comunicata, Maria Egiziaca passò il fiume, oltre
il quale si stendeva il deserto dell’Arabia. Da allora visse per 47 anni nel
deserto, sempre sola, senza incontrare né uomini né animali. La carne s’era
disseccata; i capelli erano diventati bianchissimi e lunghi, ma, secondo la
promessa della Vergine, aveva trovato in quel deserto inospitale la pace della
sua anima. Un giorno incontrò il monaco Zosimo a cui chiese di tornare un anno
dopo a portarle i Sacramenti. Un anno dopo Zosimo, come promesso, giunse con
l’Eucaristia sulla riva del Giordano. Poiché la donna ritardava a comparire,
con gran dolore Zosimo levò gli occhi al cielo e pregò: «Signore mio Dio, re e
creatore d’ogni cosa, non defraudarmi del mio desiderio, ma concedimi ch’io
veda ancora questa tua santissima ancella». Poi disse tra sé: «Ora cosa farò io
s’ella viene, che non c’è un’imbarcazione per poter attraversare? Ahimé, sarò
frustrato nel mio desiderio». Mentre così pensava, apparve Maria sull’altro
lato del fiume e Zosima vedendola si rallegrò molto e lodò Dio. Subito vide la
donna fare il segno della croce sull’acqua del fiume e camminare su di essa
come sulla terra. Trascorsero altri dodici mesi, e Zosimo si recò di nuovo nel
deserto, ma stavolta non trovò che il cadavere rinsecchito della Santa
penitente. Un leone lo aiutò con le sue zampe a scavare la fossa per seppellire
la salma. Santa Maria egiziaca prega per noi peccatori!
Pontificio Collegio Greco
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Pro-Rettore: Rev. P. Giovanni Xanthakis
Padre Spirituale: Rev. P.Michel Von Parys osb
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