mercoledì 31 marzo 2010

Dal Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli



MESSAGGIO PATRIARCALE PER LA SANTA PASQUA


+ B A R T O L O M E O

PER GRAZIA DI DIO
ARCIVESCOVO DI COSTANTINOPOLI – NUOVA ROMA
E PATRIARCA ECUMENICO
A TUTTO IL PLEROMA DELLA CHIESA
GRAZIA, PACE E MISERICORDIA
DA CRISTO GLORIOSO SALVATORE RISORTO


Fratelli e Figli amati nel Signore,

Ancora una volta gioioso e splendente sorge il Santo giorno di Pasqua e dispensa gioia, consolazione, esultanza e naturalmente speranza di vita in tutti i fedeli, nonostante il prevalere nel mondo di una atmosfera pesante, a causa della crisi multidimensionale con tutte le sue note conseguenze dolorose nella vita quotidiana dell'umanità.
Cristo è risorto dal sepolcro, Dio e Uomo, ed assieme a Lui è risorto l'uomo! La tirannia della morte rappresenta il passato.
Il solo Potente e Datore di vita, poiché ha assunto volontariamente per mezzo della Sua incarnazione tutta la miseria della nostra natura e la sua capitolazione, cioè la morte, “Allora mettesti a morte l'ade con la folgore della tua divinità” (Apolitikio resurrezionale del 2 tono) , ha donato anche all'uomo la vita e una “vita in abbondanza” (Gv.10,10). Questa abbondanza di vita che il Risorto ha donato a noi, il diavolo non smette di calunniarla e di screditarla sempre con conseguenze verso il suo nome, benché ora fiaccato, e completamente senza forze e ridicolo. Egli la calunnia, facendo prevalere nel mondo anche della dissolutezza, “l’hybris”, tanto verso Dio, quanto verso l'umanità e tutta la creazione. Egli la scredita anche con la esistenza dentro di noi di una “vecchia ruggine”, di una inclinazione al peccato, la quale sempre idoneamente trae profitto cercando di intrappolarci sia nel peccato tangibile sia nell'errore circa la fede. La dissolutezza , “l’hybris”, è il frutto di quella “ruggine” ed entrambe comprendono la sinistra copia responsabile del turbamento delle relazioni con noi stessi, con gli altri, con Dio e con il creato. Pertanto vi è una necessità ineluttabile di purificare questa ruggine con ogni attenzione e cura, affinché risplenda abbondante la luce vivificante del Cristo risorto nella mente, nell'anima e nel nostro corpo, allontani il buio della dissolutezza, e riversi l'abbondanza della vita in tutto il mondo.
Questo non può essere conseguito né attraverso la filosofia, la scienza, o la tecnologia, l'arte o qualche ideologia, se non solo attraverso la fede fino alla Passione, alla Croce, alla Morte e alla discesa ai confini dell'Ade, e alla Resurrezione dai morti del Dio e Uomo Gesù Cristo, espressa attraverso la vita sacramentale della Chiesa e attraverso una laboriosa e sistematica lotta spirituale.
La Chiesa, quale Corpo di Cristo, vive ininterrottamente e nei secoli il miracolo della Resurrezione e attraverso i suoi santi Misteri, la Teologia ed il suo insegnamento pratico, ci dà la possibilità di partecipare al miracolo, di condividere la vittoria sulla morte per diventare figli irradianti di luce della Resurrezione e veramente “partecipi della natura divina” (2 Pt. 1,4), come è avvenuto e avviene con tutti i Santi.
La naturale predisposizione al male, nel profondo del nostro cuore e il fascio di spine delle passioni unito alla ruggine del “vecchio uomo” (Ef. 4,22) che è in noi, sono il necessario per essere trasfigurati nel più breve tempo possibile in Cristo, per Cristo e grazie a Cristo e delle Sue Icone viventi che sono attorno a noi, - cioè il nostro prossimo -, in un bouquet di virtù, di santificazione e di giustizia.
Così il Santo innografo opportunamente canta: “Rivestiti della veste della giustizia, più bianca della neve, rallegriamoci in questo giorno di Pasqua, nel quale Cristo, sole di giustizia, sorgendo dai morti, ci ha fatti tutti i risplendere di incorruttibilità”. (Vesperi del giovedì di Tommaso) . La veste bianca della giustizia ci è stata data simbolicamente durante il Santo Battesimo e siamo chiamati - per mezzo di una continua conversione, di lacrime gioiose, di una preghiera interrotta, di un controllo dei desideri, della pazienza per le cose dolorose della vita, dalla fatica che non recede nella pratica applicazione di tutte le leggi di Dio e naturalmente dalla legge capitale dell'amore, - a purificarci a fondo, partecipando così allo svuotamento, alla kenosi, della croce del Dio e Uomo, affinché giunga la letizia pasquale, la luce fulgida della Resurrezione e la salvezza nella nostra vita e nel mondo attorno a noi.

Indirizzando queste cose da sempre dal Fanar , nelle prove del Venerdì Santo, ma anche nella luce e nella esperienza gioiosa della Resurrezione, esprimendo l'affetto della Madre Chiesa, auguriamo di tutto cuore ogni dono salvifico dall'Artefice della vita, il Risorto dai morti, e la Benedizione Pasquale.


Santa Pasqua 2010
+ Il Patriarca di Costantinopoli
Fervente intercessore presso il Cristo Risorto per tutti voi


Giovedì Santo



O Mitikos dipnos - Mistica Cena


Due importanti eventi caratterizzano le sacre ufficiature del Santo e Grande Giovedì: l’Ultima Cena del Signore Gesù Cristo con i suoi discepoli e il tradimento di Giuda. Il significato più profondo di questi due eventi è l’amore. L’Ultima Cena è la rivelazione escatologica dell’amore salvifico di Dio per l’uomo, l’amore che è il cuore della salvezza. Il tradimento di Giuda rivela che il peccato, la morte e l’autodistruzione sono anch’essi dovuti all’amore; ma un amore distruttivo, un amore che divide, disperde e conduce là dove domina tutt’altro che l’amore. Proprio qui sta il mistero di questo unico giorno, del Santo Giovedì. Le sacre ufficiature, dove la luce e le tenebre, la gioia e il dolore sono stranamente mescolati, ci provocano mettendoci di fronte ad una scelta dalla quale dipende la destinazione finale di ciascuno di noi. «Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre… dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine…» (Gv 13, 1). Per capire il significato dell’Ultima Cena, essa deve essere vista come il fine della grandiosa potenza del Divino Amore, che ha avuto inizio con la creazione del mondo e adesso si conclude con la Morte e la Risurrezione di Cristo. «Dio è amore» (Gv 4, 8). E il primo dono dell’Amore è stato la vita. Il significato e il contenuto della vita era la comunione. Perché l’uomo riuscisse a vivere doveva mangiare e bere, partecipare alla vita del mondo. Così il mondo era amore divino che divenne cibo, divenne Corpo dell’uomo. Ed essendo vivo, partecipando cioè al mondo, l’uomo ha dovuto vivere in comunione con Dio, trovare senso in Dio, trovare in Lui il contenuto e il fine della sua vita. Comunione con il mondo – la creazione di Dio – era una vera e propria comunione con Dio. L’uomo ha ricevuto il cibo da Dio, facendoli corpo e vita propria, ha offerto tutto il mondo a Dio trasformandolo in vita «in Cristo». L’amore di Dio ha dato la vita all’uomo, l’amore dell’uomo per Dio ha trasformato questa vita in comunione con Dio. Questo è stato il Paradiso. La vita nel Paradiso era veramente eucaristica. Attraverso l’uomo e il suo amore per Dio, l’intera creazione si sarebbe santificata e trasformata in un mistero della Presenza Divina e l’uomo sarebbe stato il celebrante di questo mistero. Però con il peccato, l’uomo ha perso questa vita eucaristica. L’ha persa perché smise di vedere il mondo come un mezzo di comunicazione con Dio, e la sua vita come eucaristia, come adorazione e gratitudine… Amò sé stesso per sé stesso e il mondo per il mondo. Fece di lui e del mondo qualcosa fine a sé stessa. Amò tanto sé stesso che lo rese il centro, il contenuto e il fine della sua esistenza. Credé che la sua fame e la sua sete, cioè la dipendenza della sua vita dal mondo, potesse essere soddisfatta da questo mondo, dal cibo che offre il mondo. Ma il mondo e il cibo, una volta separati dal loro significato misterico – come mezzi di comunicazione con Dio – dal momento in cui essi non sono assunti come doni di Dio e non soddisfano la fame e la sete per Dio, non offrono più una certa soddisfazione, né colmano la vita. In altre parole, quando Dio non è più il reale contenuto e il significato della vita del mondo, la fame e la sete cessano di essere soddisfatte, perché il mondo non ha più la vita in sé… Quindi mettendo l’amore in queste cose l’uomo si distaccò dal solo oggetto di tutto l’amore, di tutta la fame, di tutti i desideri. Ed è morto. Egli è morto perché la morte è l’inevitabile «decomposizione» della vita staccata dall’unica fonte e dall’autentico contenuto. L’uomo, invece di trovare la vita in questo mondo e il cibo che offre il mondo, trovò la morte. La vita diventò ormai comunione con la morte invece di trasformare il mondo attraverso la fede, l’amore, il culto di Dio e della comunione con Lui. L’uomo si sottomise interamente al mondo, cessò di essere il suo celebrante e divenne il suo schiavo. Con il suo peccato tutto il mondo è diventato un immenso cimitero dove le persone sono condannate a morte, perché sono «abitanti nella regione dell’ombra della morte…» (Mt 4, 16). Sebbene l’uomo abbia tradito, Dio è rimasto fedele all’uomo, non gli ha voltato le spalle. «Tu non hai respinto per sempre la creatura che avevi plasmato, o Buono, né hai dimenticato l’opera delle tue mani, ma l’hai visitata in molti modi nella tua grande misericordia» (Preghiera della Divina Liturgia di Basilio il Grande). Un nuovo progetto divino ebbe inizio; il progetto della redenzione e della salvezza. E questo progetto si completò con Cristo, il Figlio di Dio, che, per restaurare l’uomo nella sua «bellezza primitiva» e riportare la vita in comunione con il suo Creatore, si è fatto Uomo. Assunse la nostra natura umana con tutte le sue caratteristiche: la fame, la sete, il desiderio di amore, di vita. Nel volto del Cristo incarnato si rivelò la vera vita la quale fu data in origine all’uomo come una completa e perfetta Eucaristia, come piena e perfetta comunione con Dio. Il Cristo Teantropo negò la tentazione umana fondamentale: di vivere «di solo pane». Egli rivelò che Dio e il Suo Regno sono il vero pane, la vera vita dell’uomo. Questa perfetta vita eucaristica, piena di Dio – e quindi della vita divina e immortale – l’ha data a tutti i Suoi fedeli. Quindi, i credenti in Dio trovano in Lui il senso e il contenuto della loro vita. Questo è esattamente il più profondo, il meraviglioso senso dell’Ultima Cena. Gesù Cristo offrì Sé stesso come il vero, l’essenziale cibo dell’uomo, perché la vita di Cristo è la vera vita. Così il movimento del Divino Amore che ha avuto inizio nel Paradiso con l’offerta di Dio «Mangia [del frutto] di qualunque albero del paradiso» (perché il cibo è la vita dell’uomo) raggiunge ora il suo culmine con il divino «prendete e mangiate, questo è il mio corpo…» (perché Dio è la vita dell’uomo). L’Ultima Cena, quindi, è il ripristino del Paradiso delle Delizie, la restaurazione della vita come Eucaristia e comunione. Ma questo momento di estremo Amore è anche il tempo dell’estremo tradimento. Giuda abbandona la luce che inondava la «Gran Sala» ed entra nel buio. «Quello però, preso il boccone, uscì subito. Era notte» (Gv 13, 30). Perché se ne è andato? Perché amava, risponde l’Evangelo. E questo amore fatale si sottolinea ripetutamente negli inni del Grande Giovedì. «Il tuo agire è colmo di perfidia, illegittimo Giuda; essendo ammalato di avarizia, hai guadagnato la misantropia; se amavi le ricchezze perché seguivi Colui che insegnava la povertà? anche se lo baciasti, perché hai venduto colui che non ha prezzo?…». Non ha importanza il fatto che l’oggetto dell’amore di Giuda sia stato l’«oro». L’oro, il denaro, rappresentano qui tutti gli amori perversi e distruttivi che portano l’uomo alla negazione di Dio. È infatti un amore rubato a Dio ed è proprio per questo che Giuda è un ladro. E quando qualcuno non ama Dio e il suo amore in genere non proviene da Dio, anche allora l’uomo ama e desidera – perché è creato per amare e l’amore è la sua natura – ma una passione oscura e autodistruttiva lo porta alla morte. Ogni anno, mentre celebriamo questo grande giorno del Santo Giovedì e affondiamo nella sua luce infinita, e nelle profondità insondabili dei significati del giorno, la stessa domanda decisiva è rivolta a ciascuno di noi: Io, corrispondo all’amore di Dio e l’accetto come mia vita, o seguo Giuda nel buio della sua notte? Le ufficiature del Grande Giovedì includono il Mattutino, il Vespro e poi la Divina Liturgia di Basilio il Grande. Anticamente nelle cattedrali si compiva l’ufficiatura del «Lavabo» dopo la Divina Liturgia. Oggi si riscontra in pochi monasteri. Mentre il diacono legge l’Evangelo, il Vescovo (o l’igumeno) lava i piedi di dodici sacerdoti (o monaci), fatto che ci ricorda che l’amore di Cristo è il fondamento della vita della Chiesa e caratterizza tutti i rapporti all’interno della Chiesa. Inoltre nelle prime Chiese Autocefale era d’uso anticamente nel Grande Giovedì la pratica dell’ufficiatura del Santo Miron il quale viene utilizzato nel sacramento della Santa Unzione. Ma oggi il Santo Miron si prepara solo al Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli, in una specifica ufficiatura del Grande Giovedì. A questa ufficiatura partecipano il Patriarca Ecumenico, i Metropoliti e tutto il clero del Santo Trono (Ecumenico). Con il Santo Miron che riceviamo dopo il nostro battesimo, riceviamo i doni del Santo Spirito. Pertanto, il nuovo amore che Cristo porta sulla terra, ci sigilla nel giorno in cui, come nuovi membri, facciamo il nostro ingresso nella Chiesa. Nel Mattutino i tropari sottolineano il tema del giorno che è il contrasto tra l’amore di Cristo e l’«insaziabile anima» di Giuda. Uno dei tanti tropari ci dice:

«Mentre i gloriosi discepoli venivano illuminati con la lavanda della cena, ecco che l’empio Giuda, malato di avarizia, si ottenebrava; e consegnava a giudici iniqui te, il giusto Giudice. Vedi come l’amante del denaro proprio per questo finisce impiccato; fuggi anima insaziabile che tanto ha osato contro il Maestro. O tu, buono con tutti, Signore, gloria a te».

La lettura dell’Evangelo (Lc 22, 1-39) è la narrazione dei fatti accaduti in quella «grande sala pronta». Segue il meraviglioso canone – pieno di significati teologici – poema del Monaco Cosma: «Il Mar Rosso squarciato si apre…». Questo ci dà l’impulso per concentrarci e meditare sul significato escatologico dell’Ultima Cena. L’ultimo Irmòs della 9ª Ode ci invita a prendere parte alla tavola immortale che ci fornisce il Signore con imperiosa ospitalità:

«Venite, o fedeli, con sensi elevati godiamo, nella sala alta, dell’ospitalità del Signore e della sua mensa immortale, godiamo il Logos innalzato, che esaltiamo poiché egli ce l’ha rivelato».

Nel Vespro dopo il «Signore, ho gridato a te…» agli idiòmela delle Lodi che seguono si evidenzia il terribile declino spirituale di Giuda: Il tradimento. Lo stico che segue è rappresentativo: «Giuda, servo e ingannatore, discepolo e insidiatore, amico e diavolo, si rivela nelle opere. Seguiva infatti il Maestro e meditava tra sé il tradimento; diceva in sé: lo consegnerò e raccoglierò il denaro. Cercava di vendere il miron ma anche di consegnarlo con l’inganno. Diede l’abbraccio, consegnò Cristo come agnello al macello, così seguì, l’unico misericordioso e amico dell’uomo».

Dopo l’Ingresso del santo Evangelo si leggono tre letture dall’Antico Testamento:

1) Esodo 19, 10-19. Dio viene «nelle nubi» sul monte Sinai e Mosè con il popolo esce a incontrarlo. Ciò prefigura la venuta di Cristo nel mondo e soprattutto nella riunione Eucaristica.

2) Giobbe 38, 1-23; 42, 1-5. Dio parla a Giobbe e Giobbe risponde: «... chi è costui che senza cognizione ottenebra il tuo consiglio? Ho esposto dunque senza discernimento cose grandi e meravigliose che non comprendevo». E queste cose «grandi e meravigliose» si compiono ora in questa splendente «Grande Sala» con i Doni altissimi: il Corpo e il Sangue di Cristo.

3) Isaia 50, 4-11. Le profezie sulla Passione di nostro Signore Gesù Cristo. «Ho dato il mio corpo a quelli che mi percuotevano, e le mie guance a quelli che mi strappavano la barba; non nascosi il mio volto a quelli che mi schernivano e che mi sputavano…». Nella lettura dell’Apostolo si legge dalla Prima Lettera ai Corinzi (11, 23-32) la descrizione dell’Ultima Cena e il significato della Santa Comunione, come li riporta l’apostolo Paolo.La lettura dell’Evangelo che segue, è la più lunga nel corso dell’anno, ed è un testo composto da brani di tutti e quattro gli Evangeli. Parla di tutto quanto accade nell’Ultima Cena, del tradimento di Giuda e dell’arresto di Gesù Cristo nel giardino del Getsemani. Segue la Divina Liturgia di Basilio il Grande, dove invece dell’Inno Cherubico e del Koinonikòn si canta l’inno che diciamo sempre prima della santa Comunione:

«Della tua mistica cena, Figlio di Dio, rendimi oggi partecipe; non svelerò il Mistero ai tuoi nemici, né ti darò un bacio come Giuda, ma come il ladrone ti confesserò: ricordati di me, Signore nel tuo Regno».

da: Αλέξανδρος Σμέμαν, Μικρό Οδοιπορικό της Μεγάλης Εβδομάδας. Σύντομη λειτουργική εξήγηση των ημερών της Μεγάλης Εβδομάδας, 4. Μεγάλη Πέμπτη. Ο ΜΥΣΤΙΚΟΣ ΔΕΙΠΝΟΣ, Ακρίτας 2001.

lunedì 29 marzo 2010

Settimana Santa 2010




Settimana Santa e Pasqua 2010

Orario delle celebrazioni nella Chiesa di Sant'Atanasio dei Greci


Domenica delle Palme (28/03/10)

19.00 (Sabato) vespro.

10.30 Benedizione delle Palme e Liturgia di San Giovanni Crisostomo.

18.30 Orthros del Nymphios.

Lunedì Santo (29/03/10)

18.45 Liturgia dei Presantificati.Grassetto

Martedì Santo (30/03/10)

18.45 Liturgia dei Presantificati

Mercoledì Santo (31/03/10)

18.45 Liturgia dei Presantificati

Giovedì Santo (1/04/10)

10.30 Esperinòs e Liturgia di San Basilio.

18.00 Ufficio della Passione (Lettura dei 12 Vangeli)

Venerdì Santo (2/04/10)

10.00 Ora Nona, Esperinòs e Deposizione dalla Croce.

18.00 Epitaphios thrinos, Enkomia e Processione.

Sabato Santo (3/04/10)

10.00 Esperinòs e Liturgia di San Basilio.

23.00 Mesonyktikòn, Anastasis,

Orthros e Liturgia di San Giovanni Crisostomo.

Domenica di Pasqua (4/04/10)

10.30 Liturgia di San Giovanni Crisostomo.

19.00 Esperinòs. Proclamazione del Vangelo in diverse lingue.





domenica 28 marzo 2010

Domenica delle Palme


Momenti della celebrazione


Il sacerdote distribuisce ai presenti i rami di ulivo benedetti



I sacerdoti dopo la benedizione, e distribuzione dei rami
di ulivo rientrano nel Vima


Il Diacono si prepara a recitare le le ekfonisis



giovedì 25 marzo 2010

Triodion - Grande Quaresima


SULLA VIA VERSO BETANIA E GERUSALEMME

Il Sabato di Lazzaro



La sesta e ultima settimana di Quaresima si chiama “Settimana delle Palme”. Nei sei giorni che precedono il sabato di Lazzaro e la Domenica delle Palme, la liturgia della Chiesa ci fa seguire il Cristo a cominciare dal suo primo annuncio della morte del suo amico e dall’inizio del suo viaggio a Betania ed a Gerusalemme. Il tema ed il tono di questa settimana sono annunciati al vespro della domenica precedente: “Cominciando con zelo la sesta settimana di Quaresima, offriremo al Signore inni, annunciando la festa delle palme, a lui che viene con gloria e potenza divina a Gerusalemme per mettere a morte la morte...”. Il centro dell’attenzione è Lazzaro, la sua malattia, la sua morte ed il dolore dei suoi congiunti e la reazione del Cristo a tutto ciò. Così al lunedì leggiamo: “Oggi la malattia di Lazzaro appare al Cristo mentre egli cammina sull’altra riva del Giordano...”. Al martedì udiamo le parole: “Ieri ed oggi Lazzaro è malato...”. Al mercoledì si legge: “Oggi Lazzaro morto è portato alla sepoltura ed i suoi congiunti piangono...”. Al giovedì: “Due giorni or sono Lazzaro è morto...”. Infine al venerdì: “Domani il Cristo viene a sollevare il fratello morto (di Marta e Maria)...”. Tutta la settimana passa così nella contemplazione spirituale del prossimo incontro tra Cristo e la morte, dapprima nella persona del suo amico Lazzaro, poi nella morte del Cristo stesso. È l’avvicinarsi di quell’ora del Cristo di cui egli stesso ha parlato e verso la quale era rivolto tutto il suo ministero terreno. Dobbiamo dunque chiederci: Qual è il posto ed il significato di questa contemplazione nella liturgia quaresimale? In che rapporto sta con il nostro sforzo quaresimale? Queste domande ne presuppongono un’altra nella quale dobbiamo brevemente trattenerci. Nella commemorazione degli avvenimenti della vita del Cristo, la Chiesa molto spesso, se non sempre, trasferisce il passato nel presente. Così nel giorno del Natale cantiamo: “Oggi la Vergine dà alla luce...”; il Venerdì Santo: “Oggi sta davanti a Pilato...”; nella Domenica delle Palme: “Oggi egli viene a Gerusalemme...”. Da qui la domanda: qual è il significato di tale trasposizione, il senso di questo “oggi” liturgico? La stragrande maggioranza di coloro che frequentano la chiesa probabilmente l’interpreta come una metafora retorica, come una “figura poetica”. Il nostro moderno accostamento al culto è o razionale osentimentale. L’accostamento razionale consiste nel ridurre la celebrazione liturgica a “idee”. Esso ha le radici nella teologia “occidentalizzante” che s’è sviluppata nell’Oriente ortodosso dopo il tramonto dell’età patristica, per la quale la liturgia è, nel migliore dei casi, materiale rozzo per ordinate definizioni e proposizioni intellettuali. Quello che nel culto non può essere ridotto ad una verità intellettuale è etichettato come “poesia”, cioè come qualcosa da non prendersi troppo seriamente. E poiché è ovvio che gli avvenimenti commemorati dalla Chiesa appartengono al passato, all’oggiliturgico non viene attribuito alcun significato serio. Per quanto concerne l’accostamento sentimentale, esso è il risultato di una pietà individualistica e concentrata nell’io, che è in molti casi la sostituzione della teologia intellettuale. Per questo genere di pietà il culto è soprattutto un’utile cornice per la preghiera personale, uno sfondo ispiratore il cui fine consiste nel “riscaldare” il nostro cuore e dirigerlo verso Dio. Il contenuto ed il significato degli uffici liturgici, dei testi sacri, dei riti e delle azioni sono in questo caso di secondaria importanza, essi sono utili ed adeguati finché mi fanno pregare! Ed in tal modo l’oggi liturgico si dissolve come se fossero tutti gli altri testi liturgici una specie di “preghiera” indifferentemente devozionale ed ispirata. A causa della lunga consuetudine della nostra mentalità ecclesiastica con questi due modi di accostarsi all’ufficio liturgico oggi è molto difficile dimostrare che la reale liturgia della Chiesa non può essere ridotta né a “idee” né ad una “preghiera”; non si possono celebrare idee! Per quanto riguarda la preghiera personale, non è detto nell’Evangelo che quando desideriamo pregare dobbiamo chiuderci nella nostra camera ed entrare lì in comunione personale con Dio? (cfr. Matteo 6, 6). Il concetto di celebrazione implica un avvenimento e la reazione sociale o di ciascun membro ad esso. Una celebrazione è possibile solo quando la gente si raduna insieme e, trascendendo la separazione naturale e l’isolamento reciproco, reagisce insieme come un corpo, come fa una persona di fronte ad un avvenimento (per esempio l’arrivo della primavera, un matrimonio, un funerale, una vittoria, ecc...). Ed il miracolo naturale di ogni celebrazione consiste precisamente nel fatto che essa trascende, sia pur per un tempo determinato, il livello delle idee e quello dell’individualismo. Nella celebrazione si perde davvero se stessi e si trovano gli altri, in un’unica via. Ma qual è il significato dell’Oggi liturgico con cui la Chiesa inaugura tutte le sue celebrazioni? In che senso sono passati gli eventi celebrati Oggi? Si può dire, senza paura di esagerazione, che tutta la vita della Chiesa è una continua commemorazione e memoria. Alla fine di ogni ufficio divino ci ricordiamo i nomi dei santi “di cui celebriamo la memoria”; ma, dietro a tutte queste memorie, è la Chiesa ad essere il memoriale di Cristo. Da un punto di vista puramente naturale, la memoria è una facoltà ambigua. Così, il ricordare qualcuno che amiamo e che abbiamo perduto significa due cose. Da un lato la memoria è molto più che una semplice conoscenza del passato. Quando io ricordo mio defunto padre, io lo vedo: egli è presente nella mia memoria, non come una somma totale di tutto ciò che conosco di lui, bensì in tutta la sua realtà vivente. Tuttavia, d’altra parte, è proprio questa presenza che mi fa sentire acutamente che egli non è più qui, che mai più su questa terra toccherò quella mano che vedo così vividamente nella mia memoria. La memoria è così la più meravigliosa e nello stesso tempo la più tragica di tutte le facoltà umane, poiché nulla rivela meglio la natura spezzata della nostra vita, l’impossibilità per l’uomo di conservare realmente e di possedere davvero qualcosa in questo mondo. La memoria ci rivela che il “tempo e la morte regnano sulla terra”. Ma è appunto a causa di questa funzione unicamente umana della memoria, che i Cristiani si concentrano su di essa, poiché essa consiste in primo luogo nel far memoria di un Uomo, di un Evento, di una Notte, nella cui profondità e oscurità ci venne detto: “...fate questo in memoria di me”. Ed ecco, il miracolo si realizza! Noi facciamo memoria di Lui ed Egli è qui: non come un’immagine nostalgica del passato, non come un triste “non più”, ma con tale intensità di presenza, che la Chiesa può eternamente ripetere le parole dei discepoli di Emmaus: “Non bruciavano i nostri cuori nel petto...?” (Luca 24, 32). La memoria naturale è in primo luogo la “presenza di un assente”, cosi che quanto più colui che ricordiamo è presente, tanto più acuta è la sofferenza per la sua assenza. Ma, nel Cristo, la memoria è diventata di nuovo la facoltà di ricomporre il tempo spezzato dal peccato e dalla morte, dall’odio e dall’oblio. Ed è questa memoria nuova in quanto potere superiore sul tempo e sulla sua frantumazione, che si trova al centro della celebrazione liturgica, dell’oggi liturgico. Certo, non c’è dubbio, la Vergine non dà alla luce oggi; nessuno, attualmente, sta di fronte a Pilato; ed in quanto fatti, questi eventi appartengono al passato. Ma oggi noi possiamo far memoria di questi fatti e la Chiesa è in primo luogo il dono e il potere di questa memoria che trasforma i fatti del passato in eventi di una portata eterna. La celebrazione liturgica è così un ri-entrare della Chiesa nell’evento e ciò non significa soltanto la sua “idea”, ma la sua gioia o la sua tristezza, la sua vita e la sua concreta realtà. Una cosa è il sapere che con il grido “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” il Cristo crocifisso manifestò la sua “kenosis” e la sua umiltà. Ma è una cosa del tutto diversa celebrarlo ogni anno in quel Venerdì unico in cui, nel quale senza cercar di razionalizzare, sappiamo con assoluta certezza che queste parole, proferite una volta per tutte, rimangono eternamente reali così che nessuna vittoria, nessuna gloria, nessuna “sintesi” potranno mai cancellarle. Una cosa è spiegare che la risurrezione di Lazzaro aveva lo scopo di “confermare la risurrezione universale” (cfr. il Tropario del giorno): una cosa ben diversa è celebrare giorno dopo giorno, per un’intera settimana, questo lento approssimarsi dell’incontro tra la vita e la morte, il divenire parte di esso, il vedere con i nostri stessi occhi e il sentire con tutto il nostro essere ciò che comportano le parole di Giovanni: “Egli gemeva nel suo spirito, era turbato e... piangeva” (Giovanni 11, 33-35). Per noi e a noi tutto ciò accade oggi. Noi non eravamo lì a Betania, presso la tomba, con le sorelle di Lazzaro che gridavano in pianto. L’Evangelo ce ne dà solamente conoscenza. Ma nella celebrazione della Chiesa, oggi, accade che un fatto storico divenga un evento per noi, per me, un effetto nella mia vita, una memoria, una gioia. La teologia non può spingersi oltre l’-idea-. E dal punto di vista dell’idea, abbiamo forse bisogno di questi cinque lunghi giorni, quando è sufficiente dire che la risurrezione di Lazzaro aveva lo scopo di “confermare la risurrezione universale”? Ma il punto sta proprio qui: che in sé e per sé questa affermazione non conferma niente. La vera “conferma” viene dalla celebrazione, e precisamente da quei cinque giorni durante i quali noi siamo testimoni dell’inizio di questa lotta mortale fra la vita e la morte e cominciamo non solo a capire quanto a essere testimoni del Cristo che sta andando a mettere a morte la morte. La risurrezione di Lazzaro, la meravigliosa celebrazione di questo sabato unico, è al di là della Quaresima. Il venerdì che lo precede cantiamo: “Avendo portato a termine gli edificanti quaranta giorni...” e, in termini liturgici, il sabato di Lazzaro e la Domenica delle Palme sono il preludio della croce. Ma l’ultima settimana di Quaresima, che è una continua pre-celebrazione di questi giorni, è la rivelazione definitiva del significato della Quaresima. Abbiamo più volte detto che la Quaresima è la preparazione alla Pasqua; in realtà, però, nella comune esperienza, che per noi ora è divenuta ormai tradizionale, questa preparazione rimane astratta ed è tale solo di nome. La Quaresima e la Pasqua sono poste l’una accanto all’altra, ma senza una reale comprensione del loro legame e della loro interdipendenza. Anche se la Quaresima non è intesa come il periodo dell’adempimento della Confessione e della Comunione annuale, è di solito pensata in termini di sforzo individuale, anche solo così essa resta incentrata su se stessa. In altre parole, ciò che sembra virtualmente assente dalla nostra esperienza quaresimale è quello sforzo fisico e spirituale finalizzato alla nostra partecipazione all’oggi della Risurrezione del Cristo; non una moralità astratta, né un progresso morale, non un maggior controllo delle passioni e neppure un perfezionamento personale, bensì la partecipazione all’oggi ultimo e totale del Cristo che tutto abbraccia. Una spiritualità cristiana che non mirasse a questo rischierebbe di diventare pseudo-cristiana, poiché, in ultima analisi, sarebbe motivata dall’“io” e non da Cristo. Vi è il pericolo che, una volta purificata la dimora del cuore, fatta pulita e liberata dal demonio che l’abitava, essa resti vuota e il demonio vi ritorni “prendendo con sé altri sette spiriti peggiori di lui, ed essi entrino e vi alloggino e la condizione finale di quell’uomo diventi peggiore della prima” (Luca 11, 26). In questo mondo ogni cosa, ed anche la “spiritualità” può essere demoniaca. Pertanto è molto importante recuperare il significato ed il ritorno della Quaresima quale autentica preparazione al grande oggi di Pasqua. Abbiamo visto ora che la Quaresima è divisa in due parti. Prima della Domenica della Croce la Chiesa ci invita a concentrare la nostra attenzione su noi stessi, a lottare contro la carne e le passioni, contro il male e tutti gli altri peccati. Ma, pur facendo questo, siamo costantemente esortati a guardare avanti, a misurare e a motivare il nostro sforzo con “qualcosa di meglio”, preparato per noi. Poi, a partire dalla Domenica della Croce, subentra il mistero della sofferenza di Cristo, della sua croce e della sua morte, che diventa il centro della celebrazione quaresimale. Essa diventa la “salita a Gerusalemme”. Infine, durante quest’ultima settimana di preparazione, la celebrazione del mistero ha inizio. Lo sforzo quaresimale ci ha resi capaci di allontanare tutto ciò che abitualmente e continuamente oscura in maniera consistente l’oggetto centrale della nostra fede, della nostra speranza e della nostra gioia. Il tempo stesso, per così dire, arriva ad un termine. Esso è ora misurato non in base alle nostre solite preoccupazioni ed affanni, ma da ciò che avviene sulla via che porta a Betania e poi a Gerusalemme. E, una volta di più, tutto questo non è retorica. Per colui che ha gustato la vera vita liturgica, fosse pure una sola volta e anche in modo imperfetto, vien quasi da sé che, a partire dal momento in cui udiamo: “Gioisci, o Betania, dimora di Lazzaro...” e poi: “Domani il Cristo viene...”, il mondo esterno diventi un po’ irreale e si provi quasi fatica a piegarsi alla necessità del contatto quotidiano con esso. La “realtà” è ciò che avviene nella Chiesa, in quella celebrazione che giorno dopo giorno ci fa capire che cosa significhi attendere e perché il Cristianesimo sia, prima di tutto, attesa e preparazione. Così, quando arriva quel venerdì sera e noi cantiamo: “Avendo portato a termine gli edificanti quaranta giorni...”, non abbiamo semplicemente adempiuto a un “obbligo” cristiano annuale; siamo pronti a far nostre le parole che canteremo il giorno seguente:

“In Lazzaro, il Cristo già ti distrugge, o Morte! E dov’è, o Inferno, la tua vittoria...?”.

da A. Schmemann, “The great Lent”, St. Vladimir’s Seminary Press 1974, 79-85 .

mercoledì 24 marzo 2010

25 Marzo - Annunciazione della Santissima Madre di Dio e sempre Vergine Maria.



Roma, Basilica di S. Maria in Trastevere: L’Annunciazione, mosaico di P. Cavallini (1291)

L’Annunciazione! Un tempo, questo era uno dei giorni più luminosi e gioiosi dell’anno, la festa che consapevolmente, e anche inconsapevolmente, era collegata con una intuizione giubilante, raggiante di una visione del mondo e della vita. L’Evangelo di Luca ricorda il racconto dell’Annunciazione.

L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazareth, a una vergine, promessa sposa di un uomo il cui nome era Giuseppe, della casa di Davide, e la vergine si chiamava Maria. E lui le si avvicinò e disse: “Rallegrati, o piena di grazia, il Signore è con te! Benedetta tu fra le donne!”. Ma ella fu turbata a questo dire e considerava nella sua mente che cosa significasse un tale saluto. E l’angelo disse: “Non temere, Maria, perché concepirai nel tuo seno e partorirai un figlio, e lo chiamerai Gesù...”. E Maria disse all’angelo: “Come avverrà questo, dal momento che non ho marito?”. E l’angelo disse: “Lo Spirito Santo scenderà su di Te, e la potenza dell’Altissimo stenderà su te la sua ombra perciò, anche colui che nascerà sarà chiamato Santo, Figlio di Dio. Ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anche lei un figlio nella sua vecchiaia; e questo è il sesto mese, per lei, che era chiamata sterile; poiché nessuna parola di Dio rimarrà impossibile». E Maria disse: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me secondo la tua parola”. E l’angelo partì da lei. (Luca 1, 26-38)

Naturalmente, visto dalla prospettiva del cosiddetto ateismo “scientifico” questo racconto evangelico fornisce abbondanti motivi per parlare di “miti e leggende”. Il razionalista dirà: “Quando mai gli angeli appaiono alle giovani donne e tengono conversazioni con loro? I credenti davvero pensano che la gente del ventesimo secolo, che vive in una civiltà tecnologica, possa credere questo? I credenti non riescono a vedere come questo è sciocco, non scientifico e impossibile?”. Il credente ha sempre una sola risposta a questo tipo di contraddittorio, di disprezzo e di messa in ridicolo: sì, purtroppo, è impossibile provare questo nella vostra superficiale visione del mondo. Finché le vostre argomentazioni su Dio e la religione rimangono a livello superficiale di esperimenti chimici e formule matematiche vincerete sempre facilmente. Ma la chimica e la matematica non sono di nessun aiuto a provare o smentire alcunché nel regno di Dio e della religione. Nella lingua della vostra scienza, le parole angelo, buona novella, gioia e umiltà sono ovviamente completamente prive di senso. Ma perché limitare la discussione alla religione? Più della metà di tutte le parole sono incomprensibili per la vostra lingua razionalista, e quindi in aggiunta alla religione dovrete eliminare tutta la poesia, la letteratura, la filosofia e la quasi totalità della fantasia umana. Bramate il mondo intero per pensare come si fa, in termini di produzione e di forze economiche, di collettivi e di programmi. Eppure il mondo non pensa naturalmente in questo modo e deve essere ammanettato e costretto a farlo, o meglio, sembra farlo. Dite che ogni immaginazione è falsa, perché “l’immaginario” non esiste, eppure la fantasia è ciò che le persone hanno sempre vissuto, vivono, e vivranno pure in futuro. Perché tutto quanto vi è di più profondo e più essenziale nella vita è sempre stato espresso nel linguaggio della fantasia. Io non pretendo di capire che cosa è un angelo, né, usando il linguaggio limitato del razionalismo, posso spiegare ciò che è accaduto quasi duemila anni fa in una piccola città della Galilea. Ma mi sembra che l’umanità non ha mai dimenticato questa storia, che questi pochi versi sono stati ripetutamente inseriti in innumerevoli dipinti, poesie e preghiere, e che hanno ispirato e continuano ad ispirare. Questo significa, naturalmente, che la gente ha sentito qualcosa di infinitamente importante per loro in queste parole, una certa verità, che a quanto pare non potrebbe essere espressa in nessun’altro modo che nel linguaggio infantile e gioioso dell’Evangelo di Luca. Qual è questa verità? Che cosa è successo quando la giovane donna, che ha appena passato l’infanzia, improvvisamente ha sentito – da quanto grande profondità, da quale altezza trascendente! – quel saluto meraviglioso: “Rallegrati!”. Perché questo è in verità il messaggio dell’angelo a Maria: Rallegrati! Il mondo è pieno di numerosi libri sulla lotta e la concorrenza, ognuno che cerca di dimostrare che la strada per la felicità è l’odio, e in nessuno di loro potrete trovare la parola “gioia”. La gente non conosce nemmeno il significato della parola. Ma la gioia stessa annunciata dall’angelo, rimane una forza pulsante, che ha ancora il potere di stupire e scuotere i cuori umani. Entrate in una chiesa alla vigilia dell’Annunciazione. State, attendete durante la lunga ufficiatura come si sviluppa lentamente. Allora viene il momento in cui, dopo la lunga attesa, dolcemente, con tale divina squisita bellezza il coro inizia a cantare il consueto inno della festa, “Con la voce dell’Arcangelo Ti gridiamo, o Sola pura: Rallegrati, o piena di grazia, il Signore è con Te!”. Centinaia e centinaia di anni sono passati, e ancora, quando abbiamo sentito questo invito a rallegrarci, la gioia ci riempie il cuore in una ondata di calore. Ma che cosa è pressappoco questa gioia? Soprattutto ci rallegriamo per la presenza stessa di questa stessa donna, il cui volto, la cui immagine, è conosciuta in tutto il mondo, che guarda fisso su di noi dalle icone, e che è diventata una delle figure più sublimi e più pure dell’arte e dell’immaginazione umana. Ci rallegriamo nella sua risposta all’Angelo, per la sua fedeltà, la purezza, l’integrità, per la sua oblazione totale e umiltà sconfinata, che per sempre risuonano nelle sue parole: “Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga a me secondo la tua parola”. Ditemi, c’è qualche cosa in questo mondo, in qualcosa della sua ricca e complessa storia, di più sublime e più bello di questo essere umano? Maria, la Tuttapura, La piena di grazia, è veramente Colei in cui, come canta la Chiesa, “gioisce tutta la Creazione”. La Chiesa risponde alla menzogna sull’uomo, alla menzogna che lo riduce a terra e ad appetito, a bassezza e brutalità, la menzogna che lo dice essere definitivamente asservito alle leggi immutabili e impersonali della natura, indicando l’immagine di Maria, la Tuttapura Madre di Dio, Colei a cui, secondo le parole di un poeta russo, “l’effusione di dolci lacrime umane da traboccanti cuori” è offerta in un flusso senza sosta. La menzogna continua a pervadere il mondo, ma ci rallegriamo perché qui, nell’immagine di Maria, la menzogna è mostrata per quello che è. Ci rallegriamo con gioia e meraviglia, perché questa immagine è sempre con noi, come conforto ed incoraggiamento, ispirazione ed aiuto. Ci rallegriamo perché guardando questa immagine, è così facile credere nella celestiale bellezza del mondo e nella celestiale bellezza dell’uomo, vocazione trascendente. La gioia della Annunciazione è sulla Buona Notizia dell’angelo, che il popolo aveva trovato grazia presso Dio, e che presto, molto presto, attraverso di lei, attraverso questa donna Galilea totalmente sconosciuta, Dio avrebbe cominciato a compiere il mistero della redenzione del mondo. Non ci sarebbero stati fragori o paura in sua presenza, ma sarebbe venuto a lei nella gioia e nella pienezza dell’infanzia. Attraverso di lei un bambino ora sarà Re: un bambino, debole indifeso, ma per mezzo di lui tutte le potenze del male sono state per sempre spogliate del potere. Questo è ciò che noi celebriamo nell’Annunciazione e perché la festa è sempre stata, e rimane, così gioiosa e raggiante. Ma, ripeto, nulla di tutto ciò può essere compreso o espresso nelle categorie limitate e nel linguaggio consueto dell’ateismo “scientifico”, che ci porta a concludere che questo approccio volutamente e arbitrariamente ha dichiarato un’intera dimensione dell’esperienza umana essere inesistente, inutile e pericolosa, insieme con tutte le parole ed i concetti utilizzati per esprimere tale esperienza. Per discutere questo metodo alle sue proprie condizioni si dovrebbe come prima cosa scendere in un pozzo nero della metropolitana, dove, poiché il cielo non può essere visto, la sua esistenza è negata. Il sole non può essere visto, e così non c’è il sole. Tutto è sporco, ripugnante, e scuro, e così la bellezza è sconosciuta e la sua esistenza negata. È un luogo dove la gioia è impossibile, e così tutti sono ostili e tristi. Ma se lasciate il pozzo e vi arrampicate fuori, improvvisamente vi ritroverete nel bel mezzo di una chiesa clamorosamente gioiosa dove ancora una volta si sente: “Con la voce dell’Arcangelo Ti gridiamo, o Sola Pura, Rallegrati!”.

Da: Alexander Schmemann, The Celebration of Faith: The Virgin Mary, 28-32.


Απολυτίκιον Ευαγγελισμού:

Σήμερον της σωτηρίας ημών το κεφάλαιον, και του απ αιώνος Μυστηρίου η φανέρωσις. Ο υιός του Θεού, Υιός της παρθένου γίνεται, και Γαβριήλ την χάριν ευαγγελίζεται. Διο και ημείς συν αυτώ τη Θεοτόκω βοήσωμεν . Χαίρε κεχαριτωμένη, ο Κύριος μετά σου

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Oggi inizia la nostra salvezza e la manifestazione dell’eterno mistero: il Figlio di Dio
diviene figlio della Vergine e Gabriele annunzia la grazia.
Con lui gridiamo alla Madre di Dio: Salve, o piena di grazia, il Signore è con te.