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mercoledì 19 agosto 2015
mercoledì 12 agosto 2015
La Dormizione di Maria nell’innografia siro orientale.
Oggi il cielo dei cieli la canta
sorella
La tradizione siro orientale, a cui appartengono la Chiesa Assira e la Chiesa Caldea, ha dei testi innografici notevoli per le feste della Santissima Vergine Maria. Molti di questi testi, in forma innorafica, sono entrati nei libri liturgici per le diverse festività, e specialmente gli inni di Giorgio Warda, autore vissuto tra a fine del XII e l’inizio del XIII secolo ad Arbela, nell’attuale Iraq. Il nome Warda (che significa rosa in siriaco) è un soprannome legato alla raccolta delle sue composizioni poetiche nei libri liturgici siro orientali. Si tratta di poemi teologici e omelie metriche per le feste liturgiche del Signore, della Vergine Maria e dei santi. In due dei suoi inni dedicati a Maria, troviamo approfondito il tema del suo transito in cielo. Sono dei testi in cui l’autore medita il mistero di Maria, vergine e madre di Cristo Redentore dell’uomo. Queste righe, ispirate ai testi di una delle tradizioni teologiche e liturgiche del prossimo Oriente cristiano, vogliono essere anche una forma di preghiera e di vicinanza umana e cristiana a tanti cristiani della tradizione siro orientale e delle altre tradizioni cristiane sofferenti e martirizzati nei nostri giorni in Oriente ed ovunque.
Giorgio inizia tutti e due i suoi inni applicando a Maria tutta una serie di titoli cristologici e quindi mariologici presi dai testi e dai fatti veterotestamentari: “Se io la chiamassi (Maria) terra, sarei un insensato, perché so che lei non ha chi le somigli sulla terra… La potrei paragonare al giardino i cui quattro fiumi, ai quattro angoli, si dividevano? Ma la sorgente che scorreva dal paradiso non ha salvato nessuno… Da Maria invece è zampillata una fonte, che quattro bocche hanno sparso, la quale inebriò tutta la terra…”. E quindi Giorgio prosegue il suo paragone esegetico trattenendosi su alcune figure e personaggi presi dal libro della Genesi, cioè l’albero, l’arca, la roccia, il roveto: “Lei è l’albero stupendo che produsse il frutto meraviglioso… Lei è l’arca fatta di carne in cui si riposò il vero Noè… Lei è la figlia di Abramo che Adamo prevedeva in figura; portò il figlio e Signore di Abramo… Lei è la roccia donde sorse una fonte… Lei è il roveto prodigioso arso dal fuoco, in cui abitò per nove mesi il fuoco incandescente…”.
Nella parte centrale di ambedue gli inni, il poeta canta il mistero della morte di Maria. Seguendo la tradizione degli apocrifi, Giorgio descrive si potrebbe dire tutta la liturgia celebrata nella piena comunione tra il cielo e la terra. In primo luogo descrive la presenza, quasi vedendo e contemplando la rappresentazione iconografica della festa, di tutti i personaggi venuti dal cielo per celebrare Maria nel suo transito: “Nel giorno della separazione del corpo dalla gloriosa anima, gli angeli solennemente si precipitarono dal cielo per rendere omaggio a lei…, dal seno della quale zampillava la vita per tutto il genere umano! Gli angeli vennero dall’alto, i profeti risuscitarono, gli apostoli venero dai quattro venti per celebrare la sua gloria”. Quasi facendo un parallelo tra la morte e risurrezione di Cristo, e quella di sua Madre, Giorgio Warda canta la pasqua di Maria facendovi presente anche la figura di Adamo e della sua discendenza: “Venne Adamo, che era stato ucciso dalla moglie, per vedere l’esaltazione di sua figlia. Vennero Israele e gli antenati, Isaia e i suoi compagni… I profeti assieme ai patriarchi, gli apostoli con i pastori… Durante la sua vita visse morta al mondo e, morendo, richiamò i morti alla vita. I profeti sono usciti dai loro sepolcri, ed i patriarchi dalle loro tombe…”. E seguendo la descrizione quasi iconografica prosegue: “Lei fu portata sulle nubi ed esaltata fra gli spiriti, per ricevere la lode immortale per tutta l’eternità”. E l’autore si trattiene quasi in ogni dettaglio a descrivere la liturgia che è celeste e terrestre allo stesso tempo, attorno al transito di Maria; liturgia celebrata dagli angeli e dagli uomini, dai profeti e dagli apostoli, dalla creazione intera, a lode di Maria e di Cristo stesso; sono delle strofe in cui Giorgio adopera delle immagini molto belle e toccanti come quella della pioggia che invidia il grembo di Maria: “Il firmamento e le nubi piegarono le ginocchia, ed i fulmini si unirono ai tuoni per irradiare il suo splendore e diffondere la gloria di suo Figlio. La pioggia e la rugiada invidiarono il suo grembo perché, mentre loro nutrono solo semi della terra, esso ebbe l’onore di nutrire il Creatore dei semi. Le stelle la adorarono, il sole e la luna si inchinarono davanti a lei. Il cielo la proclamò beata, il cielo dei cieli la professò sorella”. Quindi a partire dalla descrizione fatta nella tradizione apocrifa della festa, il poeta, accanto alla liturgia celeste colloca anche quella terrestre, con la presenza dei Dodici accanto al letto funebre di Maria: “Fra gli apostoli alcuni erano già morti, gli altri erano in vita ma lontani. I morti sono risuscitati, e quelli lontani si assembrarono, alla sua morte”. Liturgia celeste e terrestre celebrata dagli angeli e dagli apostoli che diventano, con Maria, intercessori per tutti gli uomini: “Gli apostoli, in processione, portarono il suo corpo, i profeti ed i sacerdoti scortarono la sua bara. Gli angeli intrecciarono corone e le bocche ignee le resero omaggio. E nel momento del suo transito, la sua intercessione venne in aiuto agli afflitti. I malati e le anime sofferenti furono esauditi all’invocazione del suo grande nome”.
E Giorgio Warda conclude il secondo dei suoi inni con una lunga serie di beatitudini a Maria, che sono un canto all’incarnazione in lei del Verbo di Dio: “Beata sei, o Vergine fidanzata, o donna che hai generato un figlio… Beata sei, o madre senza padre, il cui Figlio non ebbe padre tra i mortali! Beata sei, o terra, nella quale si formò e in cui abitò, incarnandosi, il Dio di Adamo. Beata sei, o città dell’Altissimo e tabernacolo del Figlio del Creatore. Beata sei, o cielo terrestre che hanno invidiato le acque di sopra i cieli. Beata sei, tu, per la quale fu ristabilita per Adamo e la sua discendenza la salvezza eterna!”.
E come troviamo spesso tra gli innografi cristiani, anche Giorgio chiede alla fine dei suoi inni l’intercessione e la preghiera di Maria: “Per me, che sono di tutti gli uomini il più peccatore, e per tutto il popolo che celebra la Tua festa, chiedi il perdono e la remissione dei peccati, o Tu, il cui Figlio regna nella gloria eterna. Amen”.
P. Manuel Nin, Pontificio Collegio Greco, Roma.
lunedì 10 agosto 2015
Dalla Chiesa Greco-Cattolica Romena
Eretta
la Procura della Chiesa Greco-Cattolica Romena presso la Sede Apostolica e nomina
del Procuratore
In
seguito alla richiesta fatta da Sua Beatitudine il Cardinale Lucian Mureșan, Arcivescovo Maggiore della Chiesa
Greco-Cattolica Romena, la Congregazione per le Chiese Orientali ha eretto con
Decreto n. 77/2015 la Procura della Chiesa Greco-Cattolica Romena presso la
Sede Apostolica, con sede a Roma, in via Passeggiata del Gianicolo, 5.
Dopo
aver ricevuto il previo assenso dal Romano Pontefice, Sua Beatitudine il Cardinale
Lucian Mureșan, ha proceduto alla nomina di un suo Procuratore presso
la Sede Apostolica, nominado il Rev. Padre Dott. Gabriel Vasile Buboi, dal
clero dell'Eparchia di Lugoj e già Rettore del Pontificio Collegio Pio Romeno.
Secondo
il canone 61 del Codex Canonum
Ecclesiarum Orientalium, la figura giuridica del Procuratore presso la Sede
Apostolica, “ personaliter constituti” rappresenta la medesima Autorità presso le istituzioni della Santa Sede,
ed in virtù del mandato di procura, adempirà in nome dell'Arcivescovo Maggiore
le varie questioni in relazione ai Dicasteri della Curia Romana.
Traduzione dal romeno: Liviu
Ursu
Fonte: e-communio.ro
venerdì 7 agosto 2015
Perchè c'è un digiuno per la Dormizione ?
St. John the Forerunner Antiochian Orthodox Church
Sarebbe un grossolano eufemismo dire che è stato scritto molto circa la festa della Dormizione della Theotokos. È stato scritto ancora molto poco sul digiuno che lo precede. Ogni cristiano ortodosso è consapevole e in genere conosce la ragione dietro i digiuni per Pasqua e Natale. Ma mentre possono sapere del Digiuno della Dormizione, è da notare che alcuni non osservano questo digiuno, e molti di più domandano il motivo per cui c’è, non capendo il suo scopo. Dato l’equivoco dilagante sullo scopo del digiuno in sé, un aggiornamento sul suo obiettivo è sempre una buona idea. Vi è la percezione che dobbiamo digiunare quando vogliamo qualcosa, come se l’atto del digiuno soddisfacesse Dio in qualche modo, e vedere noi “soffrire” gli facesse concedere la nostra richiesta. Nulla può essere più lontano dalla verità.
Il digiuno è gradito a Dio?
Non è il nostro digiuno che piace a Dio, sono i frutti del nostro digiuno (purché digiuniamo con animo retto insieme con l’elemosina e la preghiera, e non facciamo solo dieta) che gli piacciono.
1) Digiuniamo, non per ottenere ciò che vogliamo, ma per prepararci a ricevere ciò che Dio vuole darci.
2) Lo scopo del digiuno è di portarci più in linea con un’altra Maria, la sorella di Lazzaro, e lontano dalla loro sorella Marta, che nel famoso brano era “ansiosa e agitata per molte cose”.
3) Il digiuno ha lo scopo di portarci alla realizzazione di “una cosa indispensabile”. È per aiutarci a mettere Dio al primo posto e i nostri desideri al secondo, se non l’ultimo. Come tale, serve a prepararci ad essere strumenti della volontà di Dio, come Mosè nella sua fuga dall’Egitto e sul monte Sinai, così come anche nostro Signore ha digiunato nel deserto. Il digiuno ci allontana da noi stessi e ci volge verso Dio.
4) Digiunare durante la Quaresima della Dormizione ci aiuta a diventare come la Theotokos, una serva obbediente a Dio, che ha ascoltato la Sua Parola e la ha messa in pratica meglio di chiunque altro lo abbia fatto o potuto fare.
Allora perché facciamo il digiuno prima della Dormizione?
In una famiglia molto unita, la notizia che la sua matriarca è sul letto di morte porta la vita normale ad una battuta d’arresto. D’altronde, le cose importanti (feste, TV, lussi, desideri personali) diventano poco importanti; la vita viene a ruotare intorno alla matriarca morente. È lo stesso nella famiglia ortodossa, la notizia che la nostra matriarca è sul letto di morte, non poteva (o almeno non dovrebbe) avere un effetto diverso da quello appena detto.
La Chiesa, attraverso l’ufficiatura della Paraclisis, ci dà l’opportunità di andare a quel letto di morte e di elogiare e supplicare la donna che ha portato Dio, la nave della nostra salvezza e nostra principale avvocata presso il Suo trono divino.
L’ufficiatura della Paraclisis
L’ufficio della Paraclisis alla Theotokos è composto da inni di supplica per ottenere conforto e coraggio. Dovrebbe essere recitato nei momenti di tentazione, scoraggiamento o di malattia. Viene utilizzato in particolare durante le due settimane prima della Dormizione, o Assunzione, della Theotokos, dall’1 agosto al 14 agosto. Il tema di questo ufficio della Paraclisis è incentrato intorno alla supplica: “Santissima Madre di Dio, salvaci!”. Se avete un problema o se qualcosa grava sulla vostra anima, se vi sentite spiritualmente a disagio e se non siete in pace con voi stessi e con chi vi circonda, allora, dovreste andare alla Chiesa durante i primi quindici giorni di agosto e chiedere l’intercessione della Madre di Dio. Anche se siete abbastanza fortunati da essere tra quei pochissimi che sono in pace con se stessi e con Dio, allora qual beati dovreste venire a questi uffici e ringraziare Dio e la Sua Madre Santissima per le benedizioni che hanno concesso a voi e alla vostra famiglia. Poiché queste ufficiature della Paraclisis alla Theotokos sono principalmente una supplica per il benessere dei vivi, fate che tutta la Chiesa preghi per voi durante i primi quindici giorni di agosto e soprattutto nella grande festa della Dormizione della Madre di Dio il 15 agosto. Non lasciate che la pigrizia e la vostra apatia vi facciano perdere questa grande benedizione e l’ispirazione che la Chiesa può dare su di voi. E la pace e la santità che solo la Madre di Dio può dare fate che entrino nella vostra vita. “Cerchiamo di mettere da parte tutte le preoccupazioni terrene”, e di farci veramente, nel corso di questi quindici giorni, partecipi della vita di digiuno e di preghiera della Chiesa, in modo da poter “Gustare e vedere quanto è buono il Signore”e così che possiamo pienamente sperimentare le benedizioni spirituali che la Chiesa ci offre in questo tempo santo. “Benedetto colui che egli troverà vigilante”. Venite a pregare la Madre di Dio con noi e con la Chiesa e per le sue preghiere e intercessioni, possano essere salvate le nostre anime!
Osservare il Digiuno della Dormizione
Il digiuno, nel suo senso pieno (astensione dal cibo, dai cattivi pensieri, da azioni e desideri) realizza questo. Meno tempo libero in svaghi o altre occupazioni lascia più tempo per la preghiera e la riflessione su Colei che ci ha dato Cristo, ed è divenuta la prima e più grande cristiana. Riflettendo su di lei e la sua vita incomparabile, vediamo un modello di vita cristiana, che incarna la risposta di Cristo alla donna che ha affermato che Maria era beata perché lo aveva portato: Beati piuttosto coloro che ascoltano la Sua parola e la custodiscono. Maria ha fatto meglio di chiunque altro.
Quando si avvicinava l’assunzione del tuo corpo senza macchia, gli Apostoli fissando il tuo letto, ti guardavano con tremore. Alcuni contemplato il tuo corpo erano stati abbagliati, ma Pietro a te gridava in lacrime, dicendo: ti vedo con chiarezza, o Vergine, distesa, o vita di tutti, e mi stupisco. Tu, o incontaminata, in cui la beatitudine della vita futura ha abitato, imploro il tuo Figlio e Dio di conservare indenne il tuo popolo.
www.tradizione.oodegr.comL'ufficiatura della Paraklisis
L'ufficio della Paraclisis alla Theotokos è composto da inni di supplica per ottenere conforto e coraggio. Dovrebbe essere recitato nei momenti di tentazione, scoraggiamento o di malattia. Viene utilizzato in particolare durante le due settimane prima della Dormizione, o Assunzione, della Theotokos, dall’1 agosto al 14 agosto. Il tema di questo ufficio della Paraclisis è incentrato intorno alla supplica: “Santissima Madre di Dio, salvaci!”. Se avete un problema o se qualcosa grava sulla vosra anima, se vi sentite spiritualmente a disagio e se non siete in pace con voi stessi e con chi vi circonda, allora, dovreste andare alla Chiesa durante i primi quindici giorni di agosto e chiedere l’intercessione della Madre di Dio. Anche se siete abbastanza fortunati da essere tra quei pochissimi che sono in pace con se stessi e con Dio, allora qual beati dovreste venire a questi uffici e ringraziare Dio e la Sua Madre Santissima per le benedizioni che hanno concesso a voi e alla vostra famiglia, Poiché queste ufficiature della Paraclisis alla Theotokos sono principalmente una supplica per il benessere dei vivi, fate che tutta la Chiesa preghi per voi durante i primi quindici giorni di agosto e soprattutto nella grande festa della Dormizione della Madre di Dio il 15 agosto. Non lasciate che la pigrizia e la vostra apatia vi facciano perdere questa grande benedizione e l’ispirazione che la Chiesa può dare su di voi. E la pace e la santità che solo la Madre di Dio può dare fate che entrino nella vostra vita. “Cerchiamo di mettere da parte tutte le preoccupazioni terrene”, e di farci veramente, nel corso di questi quindici giorni, partecipi della vita di digiuno e di preghiera della Chiesa, in modo da poter “Gustare e vedere quanto è buono il Signore” e così che possiamo pienamente sperimentare le benedizioni spirituali che la Chiesa ci offre in questo tempo santo. “Benedetto colui che egli troverà vigilante”. Venite a pregare la Madre di Dio con noi e con la Chiesa e per le sue preghiere e intercessioni, possano essere salvate le nostre anime!
mercoledì 5 agosto 2015
La Trasfigurazione del Signore nell’omelia di Anastasio il Sinaita
Oggi tutta
la creazione è trasfigurata.
La festa della
Trasfigurazione del Signore, celebrata il 6 agosto, è una delle feste
importanti nei calendari delle Chiese cristiane di Oriente e di Occidente.
L’iconografia della festa ci riporta a dei capolavori di carattere musivo nel monastero
di santa Caterina del Sinai (VI s.), a Ravenna a san Apollinare in Classe (VI
s.) e a Roma ai santi Nereo ed Achilleo (VIII-IX s.). Diversi Padri hanno
commentato la pericope della festa: Origene, Efrem, Giovanni Crisostomo,
Agostino. In queste righe vorrei presentare l’omelia per la Trasfigurazione di
Anastasio il Sinaita, un autore di cui abbiamo poche notizie biografiche, e che
visse nel Sinai come monaco nella seconda metà del VII secolo.
Anastasio inizia l’omelia con una captatio
benevolentiae facendo un elogio del monte Tabor, dove avviene l’episodio
evangelico della Trasfigurazione del Signore, partendo dalla visione di
Giacobbe nel libro della Genesi: “Quanto è terribile questo luogo! Mi viene da
gridare come Giacobbe, nel giorno della festa di questo monte. Come lui, vedo
anche io una scala che sale dalla terra al cielo, poggiata sulla cima di questo
monte. Anche io dico: Questa è proprio la casa di Dio, questa è la porta del
cielo”. La grandezza del monte come luogo santo, come nuovo Sinai, Anastasio la
vede nella testimonianza del Padre e nella manifestazione del Figlio, sole di
giustizia. Il monte Tabor, lungo tutta l’omelia verrà presentato come tipo
della Chiesa stessa, luogo della piena rivelazione del Verbo di Dio incarnato.
La stessa liturgia del giorno ne diventa epifania.
Anastasio
fa una lunga lode del monte della Trasfigurazione, prefigurato nell’Antico
Testamento e manifestato nel Nuovo: “Questo è il monte da cui si è staccata la
pietra, cantato dagli angeli e di cui parlano i profeti, annunciato dal
salmista, che istruisce gli ignoranti ed illumina i peccatori… creato dalla
mano destra del Signore…”. Tutta una serie di temi che fanno del monte Tabor un
tipo della Chiesa stessa, luogo della redenzione, dell’istruzione e
dell’illuminazione. E senza soluzione di continuità passa alla simbologia
neotestamentaria: “In questo monte sono stati prefigurati i simboli del Regno,
preannunciato il mistero della crocifissione, svelata la bellezza del Regno e
manifestata la seconda venuta di Cristo. In questo monte i beni futuri furono
presentati già come attuali… In questo monte si preannuncia senza inganno la
nostra immagine futura e la nostra configurazione con Cristo”. E Anastasio
associa alla gioia del monte Tabor anche quella di tutta la creazione: le altre
montagne esultano, le colline si riempiono di fiori e di foreste, i ruscelli
che scorrendo fanno risuonare la loro voce di lode nell’acqua, gli uccelli i
loro cinguettii. E aggiunge una frase che dà la chiave ecclesiologica alla
simbologia del Tabor: “Questa montagna è il luogo dei misteri, il posto delle
realtà ineffabili, la roccia dei segreti nascosti e la sommità dei cieli”. Il
Tabor come chiesa, e come altare.
Anastasio
prosegue l’omelia situando la liturgia della festa, e con una lunga serie di
frasi iniziate con “oggi”, dà la spiegazione della festa stessa della
Trasfigurazione: “Oggi sul Tabor è stata rinnovata e trasformata l’immagine
della bellezza terrestre in bellezza celeste… Oggi il Tabor e l’Hermon esultano
ed invitano tutto l’universo alla gioia… Oggi Galilea e Nazareth danzano
insieme e si rallegrano per la festa…”. E quindi sgrana tutta la redenzione
operata da Cristo e quasi annunciata in anticipo nella sua Trasfigurazione:
“Oggi il Signore è stato visto sul monte. Oggi la natura di Adamo, già creata a
somiglianza di Dio ma oscurata dagli idoli, è stata riportata alla sua
primitiva bellezza di uomo creato a immagine e somiglianza di Dio. Oggi la
natura che si era allontanata per l’idolatria, risplende di nuovo nei raggi
della divinità”. Anastasio sottolinea ancora come la Trasfigurazione del
Signore allontana le vecchie tuniche di pelle e riveste l’uomo di luce come di
un manto. Il giorno della Trasfigurazione è la festa in cui gli araldi
dell’antica e la nuova alleanza appaiono accanto al Signore. E con una bella
immagine l’autore paragona il Tabor con il Golgota: “Fu crocefisso tra due
uomini sul Golgota, ed oggi appare divinamente tra Mosè ed Elia”. E prosegue
paragonando il Sinai col Tabor: “Sul Sinai la tormenta, sul Tabor il sole… Là
il decalogo, qua il Verbo preesistente. Là la verga germina, qua la croce
fiorisce. Là le quaglie come castigo, qua la colomba come salvezza. Là Maria,
sorella di Mosè, suonò il tamburello, qua Maria genera divinamente. Là Elia si
nascondeva, qua vede Dio”.
Nella
parte centrale del testo omiletico, l’autore mette in bocca di Mosè una lunga
anamnesi dei fatti adoperati da Dio nell’antica alleanza nel Sinai e che adesso
sul Tabor trovano la loro pienezza, un testo che è una professione di fede nella
vera incarnazione del Verbo di Dio: “E adesso ti vedo, tu che sei con il Padre
e sula montagna hai detto: «Io sono colui che sono». Che io possa vederti per
poterti conoscere. E adesso ti vedo non più di spalle bensì visibilmente sul
Tabor… Tu che sei il Dio pieno di amore, nascosto nella mia forma umana… Tu che
scendesti nel roveto ardente, che guidasti e dissetasti il popolo nel deserto…
adesso sei sceso per umanizzare la natura dell’uomo che era disumana…”. E a
conclusione dell’omelia Anastasio invita tutta la creazione, anch’essa
trasfigurata in Cristo, e specialmente il Tabor e tutte le montagne a un
cantico di lode con uno sguardo quasi geografico a tutta la terra santa della
Galilea che si espande ai piedi del monte della Trasfigurazione: “Rallegrati,
Creatore di tutte le cose, o Cristo re, Figlio di Dio pieno di luce, che a tua
immagine hai trasfigurato tutta la creazione. Rallegrati, Maria, santa montagna
amata da Dio, che hai formato Cristo nella carne ma senza trasfigurarla; Maria,
cittadina di Nazareth, Vergine Madre di Dio. Rallegrati Nazareth, santuario di
Dio. Rallegrati Tabor, la più bella tra le montagne. Rallegrati mare di
Tiberiade, percorso e santificato dai piedi divini. Rallegratevi, sacerdoti
santi che portate nella terra di Melchisedec l’immagine di Cristo.
Rallegratevi, assemblee angeliche dei vergini e delle vergini imitatori di Elia
il tesbita. Rallegrati Chiesa dei credenti, celebrando questa festa in onore
del vero Dio e Salvatore nostro Gesù Cristo. A lui la gloria nei secoli. Amen”.
P. Manuel
Nin, Pontificio
Collegio greco, Roma
sabato 23 maggio 2015
Domenica di Pentecoste
“La festa della discesa del Santo Spirito”. Pronuncio queste parole che conosco sin dalla mia infanzia e mentre le pronuncio mi colpiscono come se le sentissi per la prima volta. Sì, sin dal tempo in cui ero bambino ho saputo che 10 giorni dopo l’Ascensione, cioè 50 giorni dopo Pasqua, i Cristiani, da tempi immemorabili, celebravano e continuano a celebrare la discesa del Santo Spirito durante una festa conosciuta col suo nome ecclesiale come Pentecoste o, più comunemente, come “Trinità”, il giorno della Trinità.
Da secoli, per preparare questa Festa, le chiese venivano pulite ed ornate con fronde verdi e rami, e si spargeva dell’erba per terra… Il giorno della festa, al momento del Vespro solenne, i fedeli stavano in chiesa con dei fiori in mano. Queste abitudini spiegano come la festa della Pentecoste è entrata nella coscienza popolare e nella letteratura russa come un tipo di celebrazione radiante, brillante come il sole, la festa della fioritura, un gioioso incontro tra gli umani ed il mondo di Dio in tutta la sua bellezza e la sua grazia.
Tutte le religioni, comprese le più antiche e primitive, avevano una festa per la fioritura, una festa per celebrare la prima comparsa di germogli, di piante, di frutta. Nell’antico giudaismo, era la festa di Pentecoste. Se nella religione del Vecchio Testamento, la Pasqua celebrava la risurrezione del mondo e della natura in primavera, allora la Pentecoste ebraica era la festa del passaggio della primavera verso l’estate, celebrando la vittoria del sole e della luce, la festa della pienezza cosmica. Ma nell’Antico Testamento, una festa comune a tutte le società umane acquisisce un nuovo significato: diventa la commemorazione annuale della salita di Mosè sul monte Sinai, dove in un indicibile incontro mistico, Dio rivela se stesso, entrando in un’Alleanza, dando i Comandamenti, e promettendo la Salvezza. In altri termini, la religione cessò di essere semplicemente naturale, e diventa allora l’inizio della storia: Dio aveva rivelato la Sua Legge, i Suoi Comandamenti, il Suo piano per l’umanità, ed aveva mostrato il cammino. La primavera, l’estate, il ciclo naturale eterno, diventò un segno ed un simbolo non soltanto della natura, ma del destino spirituale dell’uomo, e il comandamento di crescere nella pienezza della conoscenza, vita e pienezza perfetta… infine, nell’ultima fase del Vecchio Testamento, con l’insegnamento e la visione dei profeti, questa festa divenne una celebrazione diretta verso l’avvenire, verso la vittoria finale di Dio nella Sua Creazione. Ecco come il profeta Gioele ne parla: “Dopo questo, io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo e diverranno profeti i vostri figli e le vostre figlie; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni. Anche sopra gli schiavi e sulle schiave, in quei giorni, effonderò il mio spirito. Farò prodigi nel cielo e sulla terra, sangue e fuoco e colonne di fumo. Il sole si cambierà in tenebre e la luna in sangue, prima che venga il giorno del Signore, grande e terribile. Chiunque invocherà il nome del Signore sarà salvato, poiché sul monte Sion e in Gerusalemme vi sarà la salvezza, come ha detto il Signore, anche per i superstiti che il Signore avrà chiamati”(Gioele 3, 1-5).
È così che la festa ebraica della Pentecoste è una festa della natura e del cosmo, una festa della storia vista come rivelazione della volontà di Dio per il mondo e gli uomini, una festa del trionfo futuro, della vittoria di Dio sul male e della venuta del grande ed ultimo “Giorno del Signore”. Occorre tenere tutto questo a mente per comprendere come i primi Cristiani hanno sperimentato, compreso e celebrato la loro festa di Pentecoste, e perché è diventata una delle più importanti celebrazioni cristiane.
Il Libro degli Atti degli Apostoli, dedicato a narrare la storia dei primi Cristiani e della diffusione iniziale del Cristianesimo, comincia precisamente con il giorno della Pentecoste, descrivendo ciò che si verificò 50 giorni dopo la Risurrezione di Cristo, e 10 giorni dopo la Sua Ascensione al Cielo. Appena prima della Sua Ascensione, Cristo aveva detto ai discepoli di “non allontanarsi da Gerusalemme, ma di aspettarvi il compimento della promessa del Padre, la quale, egli disse, avete udita da me” (Atti 1, 4). Così 10 giorni dopo, secondo il racconto di san Luca: “E quando il giorno della Pentecoste fu giunto, tutti erano insieme nel medesimo luogo. E subito si fece dal cielo un suono come di vento impetuoso che soffia, ed esso riempì tutta la casa dov’essi sedevano. E apparvero loro delle lingue come di fuoco che si dividevano, e se ne posò una su ciascuno di loro. E tutti furon ripieni dello Spirito Santo, e cominciarono a parlare in altre lingue, secondo che lo Spirito dava loro d’esprimersi […] E tutti stupivano ed eran perplessi dicendosi l’uno all’altro: Che vuol esser questo? Ma altri, beffandosi, dicevano: Son pieni di vin dolce” (Atti 2, 1-4; 12-13).
A quelli che assistevano alla scena, ed erano rimasti scettici, l’Apostolo Pietro spiegò il significato dell’evento utilizzando le parole del profeta Gioele citate più su. Dice: “Ma questo è ciò che fu detto dal profeta Gioele: ‘E avverrà negli ultimi giorni, dice Dio, che spanderò del mio Spirito sopra ogni carne’ ” (Atti 2, 16-17).
Di conseguenza, per il Cristiano, la festa della Pentecoste è il completamento di tutto ciò che Cristo ha compiuto. Cristo ha insegnato a proposito del Regno di Dio, ed ecco, ora è aperto! Cristo ha promesso che lo Spirito di Dio avrebbe rivelato la verità, e anche questo, si è compiuto. Il mondo, la storia, la vita, il tempo, tutti sono illuminati dalla luce finale, trascendente, tutti sono riempiti del significato ultimo. L’ultimo e grande giorno del Signore è cominciato!
Protopresbitero Alexander Schmemann
APOLITIKION
Εὐλογητὸς εἶ,
Χριστὲ ὁ Θεὸς ἡμῶν, ὁ πανσόφους τοὺς ἁλιεῖς ἀναδείξας, καταπέμψας αὐτοῖς τὸ Πνεῦμα τὸ ἅγιον, καὶ δι' αὐτῶν τὴν οἰκουμένην σαγηνεύσας, φιλάνθρωπε, δόξα σοι.
Benedetto
sei Tu, o Cristo Dio nostro, che hai mostrato sapienti i pescatori per aver
mandato lo Spirito Santo, e per mezzo di essi hai preso nelle reti il mondo; o
amico degli uomini, gloria a te.
L’invocazione dello Spirito Santo nella tradizione siro occidentale
Miniatura della Pentecoste II. Evangeliario siriaco, XIII secolo. 1
Infuocati dallo Spirito
La tradizione liturgica della Chiesa siro occidentale,
chiamata anche Chiesa siro antiochena, possiede un’abbondante patrimonio di
testi di anafore eucaristiche, una settantina nell’insieme, di cui una ventina
soltanto edite finora. Testi di attribuzione e paternità molto varia: san
Giacomo primo vescovo di Gerusalemme, san Marco, san Giovanni Evangelista,
Dodici Apostoli, Gregorio di Nazianzo, Severo di Antiochia, Dioscoro, Giacomo
di Sarug, cioè nomi di apostoli, e di santi padri legati molti di essi alla
tradizione cristologica di questa Chiesa. Ci soffermiamo in modo particolare nell’epiclesi
che si trova in alcune di queste anafore, cioè la preghiera di invocazione
dello Spirito Santo sul pane e sul vino affinché diventino il Corpo ed il
Sangue di Cristo. In tutti i testi anaforici è sempre lo Spirito Santo colui
che è invocato per la consacrazione del pane e del vino, allo stesso modo che è
Lui che santifica e consacra l’acqua battesimale e l’olio santo. Filosseno di
Mabbug, vescovo siriaco nel VI secolo, dirà che: “I misteri appaiono agli occhi
degli uomini come semplici cose, ma per l’irruzione dello Spirito Santo
ricevono una forza soprannaturale; l’acqua, da una parte, diventa grembo
materno che genera dei figli alla vita dello Spirito. L’olio riceve la forza
santificatrice che unge e consacra allo stesso tempo corpo ed anima; il pane ed
il vino diventano il Corpo ed il Sangue del Figlio di Dio fatto uomo”. Il
tema dell’acqua come grembo e il battesimo come nascita è un aspetto molto tipico
della teologia siriaca; inoltre ci troviamo di fronte ad una forza e ad una presenza
misteriosa che agisce ed opera nell’eucaristia; si tratta di una trasformazione
e di una presenza divina dello Spirito Santo. Efrem, in una omelia sulla
Settimana Santa afferma: “Voi mangerete una Pasqua pura ed immacolata, un pane
lievitato e perfetto che lo Spirito Santo ha preparato e ha fatto cuocere, un
vino mescolato di fuoco e di Spirito: il Corpo ed il Sangue di Dio, che fu
vittima per tutti gli uomini”.
Nelle anafore il
sacerdote, dopo la narrazione dell’istituzione dell’eucaristia, invoca lo
Spirito Santo sui doni e sulla comunità ecclesiale: “Ancora ti chiediamo,
Signore di tutto e Dio delle potenze sante, prostrandoci davanti a te sul
nostro volto, di mandare il tuo Spirito Santo su queste offerte qui poste…. E
rivela che questo pane è il Corpo prezioso del nostro Signore Gesù Cristo… E
che questo calice è il Sangue del nostro Signore Gesù Cristo…. Perché questi
santi sacramenti siano per tutti coloro che ne prenderanno: vita, risurrezione,
remissione dei peccati, guarigione dell'anima e del corpo, illuminazione
dello spirito, giustificazione davanti al tremendo tribunale del tuo Cristo…”
(Dodici Apostoli). Nell’anafora di san Giacomo troviamo ben presente tutta la
teologia dello Spirito Santo sviluppatasi nella seconda metà del IV secolo, in
tre aspetti ben concreti, cioè in quello che lo Spirito Santo è: “il tuo
Santissimo Spirito, che è Signore e dà la vita, assiso sul trono insieme con
te, Dio e Padre, e con l’unigenito Figlio tuo, che regna con te, della stessa
sostanza, coeterno, che ha parlato nella legge, nei profeti e nel Nuovo
Testamento...”. Poi in quello che lo Spirito fa, cioè la santificazione dei doni:
“Affinché per la sua venuta faccia di questo pane il Corpo di Cristo... E di
quello che è mescolato in questo calice il Sangue di Cristo...”. Quindi in quello
che i Santi Doni diventano per i fedeli e per la Chiesa: “Affinché questi
misteri diano a coloro che li ricevono e ne partecipano, santità dell’anima e
del corpo, e producano in essi frutti di buone opere, raffermino la tua santa
Chiesa, che tu hai fondato sulla roccia della fede, e contro di essa le porte
degli inferi non prevarranno, preservandola da ogni eresia e degli scandali di
coloro che trasgrediscono la fede…”. Quindi da sottolineare la dimensione ecclesiologica
della teologia dello Spirito Santo nelle anafore siriache: la santificazione
adoperata dallo Spirito sui Santi Doni è in vista alla santificazione dei
fedeli, alla purificazione delle loro mancanze e al perdono dei loro peccati.
Inoltre nell’anafora attribuita a san Giovanni Evangelista, troviamo una
triplice epiclesi, sul sacerdote, sui doni e sui fedeli: “Signore, pieno di
bontà e di misericordia, abbi pietà di me e manda su di me e su queste offerte
il tuo Spirito vivente, santo e vivificante… Che lui discenda su questi misteri
e li santifichi, affinché una volta sceso faccia di questo pane il Corpo di
Cristo nostro Dio, e di questo calice il sangue dello stesso Cristo nostro Dio.
Affinché questi misteri purifichino i cuori di coloro che ne parteciperanno,
rendano spirituali i loro pensieri e santifichino le loro anime…”. Riprendendo
l’immagine dello Spirito Santo adoperata nel testo sopra citato di sant’Efrem,
Lui è il fuoco nascosto che avvolge il sacerdote che adopera il sacrificio; il
fuoco che sorvola l’altare e che discende sui doni all’epiclesi.
Lo Spirito Santo quindi
come fuoco, ed i suoi effetti. Gli autori siriaci parleranno del calore, della lievitazione,
della cottura, dell’incandescenza..., applicate allo Spirito Santo, come
simboli di realtà spirituali. Parlando dello Spirito Santo come fuoco, vogliono
sottolineare l’opera divina dello Spirito Santo per mezzo dei Santi Doni:
diventati infuocati nello Spirito Santo, per mezzo di essi i fedeli sono
vivificati e ricevono i doni dell’immortalità.
All’invocazione del sacerdote, quindi, lo Spirito Santo,
donatore di vita, scende sulle offerte collocate sull’altare e che
rappresentano Cristo messo nella tomba. In qualche modo si può dire che il
sacerdote invoca lo Spirito Santo affinché renda presente la risurrezione di
Cristo sull’altare; cioè dia al Corpo di Cristo messo nella tomba l’immortalità,
l’incorruttibilità e lo faccia diventare, come abbiamo letto nell’epiclesi dell’anafora
di san Giacomo: “Corpo datore di vita, Corpo che dà la salvezza alle nostre
anime e ai nostri corpi, Corpo del Signore, Dio grande e Salvatore nostro Gesù
Cristo”.
P. Manuel Nin, Pontificio
Collegio Greco, Roma
giovedì 14 maggio 2015
L’Ascensione del Signore. Iconografia e innografia nella tradizione bizantina.
Tu
che per me come me ti sei fatto povero…
La festa dell’Ascensione del Signore si celebra il quarantesimo giorno dopo la
sua risurrezione, cioè il giovedì della sesta settimana di Pasqua. L'icona
della festa riprende due testi del Nuovo Testamento: Lc 24,50-53: Poi il
Signore condusse i discepoli fuori e alzate le mani li benedisse. Mentre li
benediceva, si staccò da loro e fu portato verso il cielo... e Atti
1,9-11: ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero:
Questo Gesù che è stato assunto di tra voi... tornerà un giorno... Si
tratta senz’altro dell'icona dell'Ascensione del Signore, ma anche l’icona
della sua seconda venuta. L'immagine è divisa in due parti ben distinte: quella
superiore dove si vede Cristo assiso su un trono, ascendente e immobile nella
sua gloria, sostenuto da due angeli. Nella parte inferiore l’icona colloca la
Madre di Dio in mezzo ai discepoli, tra cui c’è Pietro a destra e Paolo a
sinistra, e due angeli in bianche vesti. L'icona dell'Ascensione –e la stessa
festa dell'Ascensione come vedremo nei testi liturgici- contempla Cristo nel
suo innalzarsi, sostenuto dagli angeli. Quindi dalla sua Ascensione fino al suo
ritorno Cristo Signore presiede la sua Chiesa - nell'icona questo è molto
evidente; Lui dal suo trono presiede la Chiesa formata dagli apostoli, presiede
la preghiera della Chiesa. L'atteggiamento di Maria nell’icona è sempre lo
stesso: la preghiera. Lei no guarda in alto -in quasi nessuna icona
dell'Ascensione-, ma guarda di fronte, essa stessa guarda la Chiesa per
ricordarle la necessità della veglia, dell'’attesa, della preghiera. Icona
dell'Ascensione di Cristo, ma anche l'icona della Chiesa nata dalla croce di
Cristo: nell’icona su potrebbe anche legere una croce formata dall’asse verticale
da Cristo a Maria, e l’asse orizzontale che percorre le teste degli angeli in
bianche vesti e gli apostoli stessi; icona della Chiesa che vive da e nella
preghiera della comunità e dalla testimonianza degli apostoli, mentre è nella
attesa del ritorno del suo Signore.
L’icona dell'Ascensione e i testi dell'ufficiatura della festa sottolineano
come il Signore, ascendendo in cielo esalta l’umanità da noi assunta: “Tu che,
senza separarti dal seno paterno, o dolcissimo Gesú, hai vissuto sulla terra come
uomo, oggi dal Monte degli Ulivi sei asceso nella gloria: e risollevando,
compassionevole, la nostra natura caduta, l=hai fatta sedere con te accanto al
Padre. Per questo le celesti schiere degli incorporei, sbigottite per il
prodigio, estatiche stupivano e, prese da tremore, magnificavano il tuo amore
per gli uomini…”.
L’Ascensione del Signore nei testi della liturgia della festa è sempre pegno
della sua promessa e della missione dello Spirito Santo. L’icona della festa
della Pentecoste infatti riprenderà quasi uguale la parte inferiore dell'icona
dell'Ascensione: in ambedue vediamo la Madre di Dio e gli apostoli in
atteggiamento di preghiera contemplando il Cristo ascendente; la Madre di Dio e
gli apostoli, la Chiesa stessa in atteggiamento di preghiere per ricevere il
dono dello Spirito Santo: “Il Signore è asceso ai cieli per mandare il
Paraclito nel mondo. I cieli hanno preparato il suo trono, le nubi il carro su
cui salire; stupiscono gli angeli vedendo un uomo al di sopra di loro. Il Padre
riceve colui che dall'eternità, nel suo seno dimora… Signore, quando gli
apostoli ti videro sollevarti sulle nubi, gemendo nel pianto, pieni di
tristezza, o Cristo datore di vita, tra i lamenti dicevano: O Sovrano, non
lasciare orfani i tuoi servi che tu, pietoso, hai amato nella tua tenera
compassione: mandaci, come hai promesso, lo Spirito santissimo per illuminare
le anime nostre…”.
Tutta l’economia della nostra salvezza, il mistero dell'incarnazione del Verbo
di Dio, viene riassunto in uno dei tropari del vespro, che lo presenta con
l’immagine della povertà assunta dal Signore nel suo farsi uomo: “Signore,
compiuto il mistero della tua economia, hai preso con te i tuoi discepoli e sei
salito sul Monte degli Ulivi: ed ecco, te ne sei andato oltre il firmamento del
cielo. O tu che per me come me ti sei fatto povero, e sei asceso là, da dove
mai ti eri allontanato, manda il tuo Spirito santissimo per illuminare le anime
nostre”.
Uno dei tropari dell'ufficiatura del vespro canta l’ascensione del Signore
servendosi del salmo 23 nella sua forma dialogica, così come lo troviamo anche
nella stessa notte di Pasqua nella liturgia bizantina: “Mentre tu ascendevi, o
Cristo, dal Monte degli Ulivi, le schiere celesti che ti vedevano, si gridavano
l'un l'altra: Chi è costui? E rispondevano: È il forte, il potente, il potente
in battaglia; costui è veramente il Re della gloria. Ma perché sono rossi i
suoi vestiti? Viene da Bosor, cioè dalla carne. E tu, dopo esserti assiso in
quanto Dio alla destra della Maestà, ci hai inviato lo Spirito Santo per
guidare e salvare le anime nostre”.
Icona e festa dell'Ascensione del Signore; icona e festa della sua
seconda venuta. Diversi dei testi del mattutino della festa sottolineano
questo doppio aspetto, commentando quasi iconograficamente l’uno e l’altro: “Uccisa
la morte con la tua morte, o Signore, hai preso con te quelli che amavi, sei
salito al santo Monte degli Ulivi, e di là sei asceso al tuo Genitore, o
Cristo, portato da una nube… Agli apostoli che continuavano a guardare dissero
gli angeli: Uomini di Galilea, perché restate sbigottiti per l'ascensione del
Cristo, datore di vita? Così egli stesso verrà di nuovo sulla terra per
giudicare tutto il mondo, quale giustissimo Giudice…”. Il tropario della festa
raccoglie i diversi aspetti della festa stessa: “Sei asceso nella gloria, o
Cristo Dio nostro, rallegrando i discepoli con la promessa del Santo Spirito:
essi rimasero confermati dalla tua benedizione, perché tu sei il Figlio di Dio,
il Redentore del mondo”.
P. Manuel
Nin, Pontificio Collegio Greco, Roma.
APOLITIKION
Ἀνελήφθης ἐν
δόξῃ, Χριστὲ ὁ Θεὸς ἡμῶν, χαροποιήσας τοὺς Μαθητάς, τῇ ἐπαγγελίᾳ
τοῦ ἁγίου
Πνεύματος· βεβαιωθέντων αὐτῶν διὰ
τῆς εὐλογίας,
ὅτι σὺ
εἶ ὁ
Υἱός τοῦ
Θεοῦ, ὁ
λυτρωτὴς τοῦ κόσμου.
Ascendesti nella
gloria, o Cristo Dio nostro, e rallegrasti i discepoli con la promessa del
Santo Spirito, essendo essi confermati per la tua benedizione, che tu sei il
Figlio di Dio, il Redentore del mondo.
sabato 4 aprile 2015
Cristo è Risorto
La mia fede in Cristo non deriva dall’opportunità che mi è stata data di partecipare sin dalla prima infanzia alla celebrazione pasquale. Piuttosto la mia fede è nata dalla stessa esperienza del Cristo vivente, perché Pasqua, quella notte unica che riempie di luce, di gioia e di una tale forza vittoriosa, è resa possibile nel saluto: “Cristo è risorto! Veramente è risorto!”. Come e quando è nata? Non lo so, non ricordo. So soltanto che ogni volta che apro l’Evangelo e leggo di Cristo, leggo le sue parole, leggo il suo insegnamento, consapevolmente mi ripeto, con tutto il mio cuore ed il mio essere, ciò che è stato detto da coloro che erano stati inviati per arrestare Cristo, ma che ritornarono dai farisei senza di Lui: “Nessun uomo mai ha parlato come quest’uomo” (Giovanni 7, 46). Pertanto, quello che so è prima di tutto che l’insegnamento di Cristo è vivo, e che niente sulla terra può essere paragonato ad esso. E questo insegnamento è su di Lui, sulla vita eterna, sulla vittoria sulla morte, su un amore che vince e vince la morte. So bene che in una vita dove tutto sembra così difficile e faticoso, una costante che non cambia mai e mai mi lascia è questa interiore consapevolezza che Cristo è con me. “Non vi lascerò orfani, verrò a voi” (Giovanni 14, 18). E viene a dare il segno sensibile della sua presenza attraverso la preghiera, con un fremito dell’anima, con una gioia così incomprensibile, e tuttavia molto viva, con la sua misteriosa, ma così certa presenza in chiesa durante le ufficiature e nei sacramenti. Questa esperienza di vita è in continua crescita, questa conoscenza, questa consapevolezza che diventa così evidente, che Cristo è qui e che la sua parola è stata compiuta: chi mi ama, “io lo amo e mi manifesterò a lui” (Giovanni 14, 21). E sia che mi trovi in mezzo alla folla, o da solo, questa certezza della sua presenza, questa potenza della sua parola, questa gioia della fede in Lui resta con me. Questa è l’unica risposta e l’unica prova.“Perché cercate il Vivente fra i morti? Perché piangete in mezzo alla corruzione Colui che non ha conosciuto la corruzione?”. Tutto il Cristianesimo, dunque, è l’esperienza di fede ripetuta ancora e ancora, come se fosse la prima volta, attraverso la sua incarnazione in riti, parole, musica e colori. Al non credente, può effettivamente sembrare come un miraggio; sente solo parole, vede solo incomprensibili cerimonie, e comprende solo esteriormente. Ma per i credenti, tutto questo si irradia dall’interno, e non come prova della propria fede, ma come il suo risultato, così come la sua vita nel mondo, nell’umanità, nella storia. Pertanto, le tenebre e la tristezza del Santo Venerdì sono per noi qualcosa di reale, vivo, contemporaneo; possiamo piangere sotto la croce ed esperire tutto ciò che ha avuto luogo in questo trionfo del male, della slealtà, della codardia e del tradimento; possiamo contemplare il vivificante sepolcro nel Santo Sabato, con entusiasmo e speranza. E quindi, ogni anno possiamo celebrare il periodo pasquale, la Pasqua, la Risurrezione. Perché la Pasqua non è il ricordo di un evento del passato. È l’incontro reale nella felicità e nella gioia, con Colui che i nostri cuori molto tempo fa hanno conosciuto e incontrato come la Vita e la Luce di tutta la luce. La notte di Pasqua testimonia che Cristo è vivo ed è con noi, e che noi siamo vivi con Lui. L’intera celebrazione è un invito a guardare il mondo e la vita, ed ecco il sorgere del mistico giorno del Regno della Luce. “Oggi comincia il profumo della Primavera”, canta la Chiesa, “e la nuova creazione esulta...”. Si esulta nella fede, nell’amore e nella speranza.
Questo è il giorno della Risurrezione,
cerchiamo di essere illuminati dalla festa,
abbracciamoci l’un l’altro,
chiamiamo “fratelli” anche quelli che ci odiano,
e perdoniamo tutti a motivo della Risurrezione,
e così gridiamo: Cristo è risorto dai morti,
ha calpestato la morte con la morte,
e a chi giace nei sepolcri ha donato la vita.
Cristo è risorto!
Padre Alexander Schmemann
Il Grande e Santo Sabato
Questo è il
Benedetto Sabato
Il “Grande e Santo sabato” è il giorno che
collega il Santo Venerdì, la commemorazione della Croce, con il giorno della
Risurrezione di Cristo. Per molti la vera natura e il significato di questa
“connessione”, la stessa necessità di questo “giorno intermedio”, rimane
oscuro. Per una buona maggioranza di fedeli, i giorni “importanti” della Santa
Settimana sono Venerdì e Domenica, la Croce e la Risurrezione. Questi due
giorni, tuttavia, restano in qualche modo “disconnessi”. Vi è un giorno di
dolore, e poi, vi è il giorno della gioia. In questa sequenza, il dolore è
semplicemente sostituito dalla gioia… Ma secondo l’insegnamento della Chiesa,
espresso nella sua tradizione liturgica, la natura di tale sequenza non è
quella di una semplice sostituzione. La Chiesa proclama che Cristo “ha
calpestato la morte con la morte”. Ciò significa che, anche prima della
risurrezione, ha luogo un evento in cui il dolore non è semplicemente
sostituito dalla gioia, ma è trasformato in gioia. Il Grande Sabato è
precisamente questo giorno di trasformazione, il giorno in cui la vittoria
cresce da dentro alla disfatta, quando prima della Risurrezione, ci è dato di
contemplare la morte della stessa morte... tutto questo è espresso, e ancor di
più, tutto questo in realtà avviene ogni anno in questa meravigliosa
ufficiatura mattutina, in questa commemorazione liturgica che diventa per noi
una salvezza e una trasformazione attuale.
Salmo 118 – L’amore per la Legge di Dio
Giungendo alla Chiesa per il Mattutino del
Santo Sabato, il Venerdì è stato liturgicamente appena completato. Il dolore
del Venerdì è, quindi, il tema iniziale, il punto di partenza del Mattutino del
Sabato. Si comincia come un’ufficio funebre, come un lamento su un corpo morto.
Dopo il canto dei tropari del funerale e una lenta incensazione della chiesa, i
celebranti appressano l’Epitaphion. Siamo alla tomba di nostro Signore,
contempliamo la sua morte, la sua sconfitta. Il Salmo 118 è cantato e ad ogni
versetto si aggiunge una speciale “ode”, che esprime l’orrore degli uomini e di
tutta la creazione prima della morte di Gesù:
O colline e valli,
la moltitudine degli uomini,
e la creazione tutta, piangete e fate
lamento con me,
la Madre del vostro Dio. (I: 69)
E ancora, fin dall’inizio, insieme con
questo iniziale tema del dolore e del pianto, fa la sua comparsa un nuovo tema
che diventerà sempre più evidente. Ritroviamo tutto ciò, prima di tutto, nel
Salmo 118 – “Beati coloro la cui strada è innocente, che camminano nella legge
del Signore. Nella nostra prassi liturgica odierna questo salmo è utilizzato
solo per l’ufficiatura del “funerale”, quindi per il credente medio ha una
connotazione “funebre”. Ma nella tradizione liturgica antica questo salmo
costituiva una delle parti essenziali della veglia della Domenica, la commemorazione
settimanale della Risurrezione di Cristo. Il suo contenuto non è in tutto
“funebre”. Questo salmo è la più pura e massima espressione di amore per la
legge di Dio, vale a dire, per il disegno Divino sull’uomo e sulla sua vita. La
vera vita, quella che l’uomo ha perso con il peccato, consiste nel
mantenimento, nel compimento della Legge divina, che è la vita con Dio, in Dio
e per Dio, per cui l’uomo è stato creato.
Gioisco seguendo le tue testimonianze,
come se possedessi tutte le ricchezze... (v. 14)
Mi diletterò nei tuoi statuti... (v. 16)
E poiché Cristo è l’immagine
dell’adempimento perfetto di questa legge, dal momento che tutta la sua vita
non ha avuto altro “contenuto”, se non il compimento della volontà del Padre
suo, la Chiesa interpreta questo salmo come le parole di Cristo stesso, dette a
suo Padre dalla tomba.
Vedi come amo i tuoi precetti! Signore,
dammi la vita secondo la tua bontà... (v. 159)
La morte di Cristo è l’ultima prova del
suo amore per la volontà di Dio, della sua obbedienza al Padre. Si tratta di un
atto di pura obbedienza, di piena fiducia nella volontà del Padre, e per la
Chiesa è proprio questa obbedienza fino alla fine, questa perfetta umiltà del
Figlio che costituisce il fondamento, l’inizio della Sua vittoria. Il Padre chiede
questa morte, il Figlio la accetta, rivelando una incondizionata fiducia nella
perfetta volontà del Padre, nella necessità di questo sacrificio del Figlio
chiesto dal Padre. Il 118 è il salmo di tale obbedienza, e quindi l’annuncio
che nell’obbedienza il trionfo è iniziato.
L’incontro con la morte
Ma perché il Padre chiede questa morte?
Perché è necessaria? La risposta a questa domanda costituisce il terzo tema
della nostra ufficiatura, che appare prima nelle “lodi”, che seguono ogni
versetto del Salmo 118. Esse descrivono la morte di Cristo come la sua discesa
nell’Ade. “Ade” nel linguaggio biblico significa concretamente il regno della
morte, che Dio non ha creato e che non vuole, ma significa anche che il
principe di questo mondo è onnipotente nel mondo. Satana, il peccato, la morte
– sono queste le “dimensioni” dell’Ade, il suo contenuto. Il peccato proviene
da Satana e la Morte è il risultato del peccato – “il peccato è entrato nel
mondo, e per mezzo del peccato la morte” (Romani 5, 12), “La morte ha regnato
da Adamo a Mosè” (Romani 5, 14), l’intero universo è divenuto un cimitero
cosmico, è stato condannato alla distruzione e disperazione. Ed è per questo
che la morte è “l’ultimo nemico” (I Corinzi 15, 20) e la sua distruzione
costituisce il fine ultimo della Incarnazione. Questo incontro con la morte è
l’“ora” di Cristo, della quale ha detto “per quest’ora sono venuto”. (Giovanni
12, 27). Adesso, quest’ora è venuta e il Figlio di Dio entra nella Morte. I
Padri sono soliti descrivere questo momento come un duello tra Cristo e la
Morte, tra Cristo e Satana. Per questo la morte doveva essere l’ultimo trionfo
di Satana, o la sua decisiva sconfitta. Il duello si evolve in diverse tappe.
In un primo momento, le forze del male sembrano trionfare. Colui che è Giusto
viene crocifisso, abbandonato da tutti, e soffre una morte vergognosa. Egli
inoltre diviene partecipe dell’“Ade”, di questo luogo di tenebre e
disperazione… ma è in questo momento che viene rivelato il vero significato di
questa morte. Colui che muore sulla croce ha la Vita in Sé stesso, vale a dire,
egli non ha la vita come un dono ricevuto dall’esterno, un dono che quindi può
essergli portato via, ma come Sua propria essenza. Egli è la vita e la Sorgente
di tutta la vita. “In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini”.
L’uomo Gesù muore, ma questo Uomo è il Figlio di Dio. Come uomo, Egli può
veramente morire, ma in Lui, Dio stesso entra nel regno della morte, partecipa
della morte. È questo l’unico, l’incomparabile significato della morte di
Cristo. In essa, l’uomo che muore è Dio, o per essere più esatti, il Dio-Uomo.
Dio è il Santo Immortale; e solo nell’unità “senza confusione, senza
cambiamento, senza divisione, senza separazione” del Dio e dell’Uomo in Cristo
la morte umana può essere “assunta” da Dio e superata e distrutta dall’interno,
può essere “calpestata dalla morte”.
La morte è sconfitta dalla Vita
Ora si comprende il motivo per cui Dio
vuole quella morte, perché il Padre dona il Suo Figlio Unigenito ad essa. Egli
vuole la salvezza degli uomini, vale a dire, che la distruzione della morte non
deve essere un atto della sua potenza (“Credi forse che io non potrei pregare
il Padre mio che mi manderebbe in questo istante più di dodici legioni
d’angeli?” Matteo 26, 53), non una violenza, anche se per la salvezza, ma un
atto di quell’amore, di quella libertà e di quella libera dedizione a Dio
attraverso cui Egli ha creato l’uomo. Perché qualsiasi altra salvezza sarebbe
stata in contrasto con la natura dell’uomo, e, quindi, non una vera e propria
salvezza. Di qui la necessità dell’Incarnazione e la necessità di quella morte
Divina. In Cristo, l’uomo ristabilisce l’obbedienza e l’amore. In Lui, l’uomo
vince il peccato e il male. Era essenziale che la morte non venisse distrutta
solo da Dio, ma vinta e calpestata dalla stessa natura umana, dall’uomo e
attraverso l’uomo. “Poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte, così anche
per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione dei morti” (I Corinzi 15, 21).
Cristo accetta liberamente la morte; della sua vita Egli dice che “nessun uomo
me la toglie, ma io la depongo da me” (Giovanni 10, 18). Non lo fa senza una
lotta: “e cominciò a essere triste e angosciato” (Matteo 26, 37). Qui è
compiuta la misura della sua obbedienza e, quindi, qui avviene la distruzione
della causa morale della morte, della morte come riscatto per il peccato.
L’intera vita di Gesù è in Dio, come ogni vita umana deve essere, ed è questa
pienezza di vita, questa vita piena di significato e di contenuti, piena di
Dio, che vince la morte, distrugge il suo potere. Per la morte è, soprattutto,
una mancanza di vita, una distruzione della vita che ha tagliato da sé la sua
unica fonte. E poiché la morte di Cristo è un movimento di amore verso Dio, un
atto di obbedienza e di fiducia, di fede e di perfezione – essa è un atto di
vita (“Padre nelle tue mani consegno il mio spirito”, Luca 23, 46) che
distrugge la morte. È la morte della morte stessa.Tale è il significato della
discesa di Cristo nell’Ade, della Sua morte divenuta la Sua vittoria. E la luce
di questa vittoria ora illumina la nostra veglia di fronte la Tomba.
O Vita, come puoi Tu morire?
Come puoi Tu abitare in una tomba?
Eppure, con la tua morte, Tu hai
distrutto il regno della morte,
e hai sollevato tutti morti dagli
inferi. (1:2)
In una tomba, o Cristo,
hanno posto Te, la Vita.
Con la tua morte hai rigettato la
potenza della morte
e diventa fonte di vita per tutto il
mondo. (1:7)
O, quanto è grande la gioia,
come la gioia piena,
Tu che hai portato ai prigionieri
dell’Ade,
come un fulmine lampeggiante nella sua
cupa profondità. (1:49)
La vita entra nel Regno della morte. La
Divina Luce splende nelle sue terribili tenebre. Essa risplende per tutti
coloro che sono lì, perché Cristo è la vita di tutti, l’unica sorgente di ogni
vita. Di conseguenza anche muore per tutti, dato che ciò che accade alla Sua
vita – avviene nella Vita stessa... Questa discesa nell’Ade è l’incontro della
Vita di tutti con la morte di tutti:
Desiderando salvare Adamo,
Tu scendesti sulla terra.
Non trovandolo sulla terra, o Signore,
Tu scendesti nell’Ade in cerca di lui. (1:25)
Il dolore e la gioia sono in lotta tra
loro e adesso la gioia è sul punto di vincere. Le “lodi” sono terminate. Il
dialogo, il duello tra la vita e la morte arriva alla sua conclusione. E, per
la prima volta, il canto di vittoria e di trionfo, il canto di gioia risuona. E
risuona nei “tropari al Salmo 118” ,
cantati in ogni vigilia della Domenica, all’approssimarsi del giorno della
Risurrezione:
Le angeliche schiere furono piene di
stupore quando videro Te tra i morti! Con la distruzione del potere della morte,
o Salvatore, Tu rialzasti Adamo e salvasti tutti gli uomini dall’inferno!
Nella tomba il radioso angelo gridava
alle mirofore, “Perché, o donne, mescolate alla mirra le vostre lacrime?
Guardate il sepolcro e comprendete: il Salvatore è risorto dai morti!”.
La Tomba Vivificante
Dopo viene il bel Canone del Grande
Sabato, in cui ancora una volta tutti i temi di questa ufficiatura dal lamento
funebre alla vittoria sulla morte sono ripresi e approfonditi, e che termina
con questo ordine:
Si rallegri la creazione! Tutti i nati
sulla terra, si rallegrino! Perché l’odioso inferno è stato spogliato. Lasciate
venire incontro a me le donne con la mirra; perché Io sono il Redentore di
Adamo ed Eva e di tutti i loro discendenti, e il terzo giorno risorgerò!
“E il terzo giorno risorgerò!”. Da ora
l’ufficiatura si illumina della gioia pasquale. Siamo ancora in piedi davanti
alla Tomba, ma ci è stata rivelata come la Tomba vivificante. La vita riposa in
essa, una nuova creazione è stata generata, e ancora una volta, il Settimo
Giorno, il giorno del riposo del Creatore da tutte le sue opere. “La vita dorme
e tremano gli inferi" – e noi contempliamo, in questo benedetto sabato, la
solenne quiete di Colui che ci porta di nuovo la vita: “Venite, vediamo la
nostra vita che giaceva nel sepolcro…”. Il senso pieno, la profondità mistica
del Settimo Giorno, come il giorno del compimento, il giorno di realizzazione è
ora rivelato, perché
Il grande Mosè misticamente prefigurò
questo giorno, quando ha detto,
Dio benedisse il settimo giorno.
Questo è il Benedetto sabato;
questo è il giorno di riposo,
in cui il Figlio Unigenito di Dio si
riposò da tutte le sue opere.
Patendo la morte, per realizzare il
disegno di salvezza,
Ha mantenuto il Sabato nella carne;
tornando di nuovo a ciò che Egli è
stato,
Egli ci ha concesso la vita eterna con
la Sua risurrezione,
perchè Egli solo è buono, e ha amore per
l’uomo.
Ora facciamo il giro della Chiesa in una
solenne processione con l’Epitaphion, ma non si tratta di una processione
funebre. È il Figlio di Dio, il Santo immortale, che procede attraverso le
tenebre dell’Ade, annunciando a “tutte le generazioni di Adamo” la gioia della
futura risurrezione. “Sorgendo prima della notte”, Egli proclama, “i morti si
solleveranno, quelli nelle tombe si sveglieranno, e tutti coloro che sono sulla
terra gioiranno pienamente”.
L’Attesa della Vita
Si ritorna alla Chiesa. Conosciamo già il
mistero della vita della vivificante morte Cristo. L’Ade è distrutto. L’Ade
trema. E ora appare l’ultimo tema
– il tema della Resurrezione.
Il Sabato, il settimo giorno, realizza e
completa la storia della salvezza, il suo ultimo atto è la sconfitta della
morte. Ma dopo il Sabato arriva il primo giorno di una nuova creazione, di una
nuova vita che nasce dalla tomba. Il tema della Risurrezione è inaugurato nel
Prokeimenon:
Sorgi, o Signore, e aiutaci! Liberaci
per amore del tuo Nome. Abbiamo sentito con le nostre orecchie, o Dio...
E prosegue nella prima lettura: la
profezia di Ezechiele sulle ossa secche (cap. 37). “…ecco erano numerosissime
sulla superficie della valle, ed erano anche molto secche”. È la morte a
trionfare nel mondo, il buio, la disperazione di questa universale condanna a
morte. Ma Dio parla al profeta. Egli annuncia che questa sentenza non è il
destino ultimo dell’uomo. Le ossa
secche ascolteranno le parole del Signore. I morti vivranno di nuovo. “Ecco, io aprirò le vostre tombe, vi
tirerò fuori dalle vostre tombe, o popolo mio, e vi ricondurrò nel paese
d’Israele”. A seguito di questa profezia viene il secondo prokeimenon – con lo
stesso appello, la stessa preghiera:
Sorgi, Signore mio Dio, alza la tua
mano! …
Come è successo, come è possibile questa
risurrezione universale? La seconda lettura (I Corinzi 5, 6; Galati 3, 13-14)
dà la risposta: “un po’ di lievito fa fermentare tutta la pasta...”, Cristo,
nostra Pasqua, è questo fermento della risurrezione di tutti. Come la sua morte
distrugge il principio stesso della morte, la sua risurrezione è il segno della
risurrezione di tutti, perché la sua vita è la sorgente di ogni vita. E i versi
dell’“Alliluia”, gli stessi versi che apriranno il servizio di Pasqua,
sanciscono questa risposta definitiva, la certezza che il tempo della nuova
creazione, il giorno senza tramonto, è iniziato:
Alliluia! Alliluia! Sorga Dio! I suoi
nemici si disperdano! Fuggano davanti a lui quelli che lo odiano... Alliluia!
Alliluia! Come si disperde il fumo, tu li disperdi, come fonde la cera di fronte
al fuoco!
La lettura delle profezie è finita.
Eppure, abbiamo sentito solo profezie. Siamo ancora nel Grande Sabato di fronte
alla tomba di Cristo, e dobbiamo vivere questo lungo giorno, prima di sentire a
mezzanotte: “Cristo è risorto”, prima di entrare nella celebrazione della Sua
Risurrezione. Così, la terza lettura – Matteo 27, 62-66 – che completa
l’ufficio, ci dice ancora una volta di più sulla Tomba – che “assicurarono il
sepolcro, sigillando la pietra e mettendovi la guardia”. Ma è qui, probabilmente, alla fine del
Mattutino, che il senso ultimo di questo “giorno intermedio” si manifesta.
Cristo è risuscitato dai morti, la Sua Risurrezione si celebrerà il Giorno di
Pasqua. Questa celebrazione, tuttavia, commemora un evento del passato, e anticipa
un mistero del futuro. È già la Sua Risurrezione, ma non ancora la nostra. Dovremo morire, accettare la morte, la
separazione, la distruzione. La
nostra realtà in questo mondo, in questo “aeon”, è la realtà del Grande Sabato,
questo giorno è la vera immagine della nostra condizione umana. Noi crediamo
nella risurrezione, perché Cristo è risorto dai morti. Noi aspettiamo la
risurrezione. Sappiamo che la morte di Cristo non è più la disperazione, la
conclusione ultima di tutto. Battezzati nella sua morte, già partecipiamo della
sua vita, che è venuta fuori dalla tomba. Noi riceviamo il suo Corpo e Sangue,
che sono il cibo di immortalità. Abbiamo in noi stessi il segno,
l’anticipazione della vita eterna. Tutta la nostra Cristiana esistenza è
misurata da questi atti di comunione per la vita del “nuovo aeon” del Regno, e
noi siamo ancora qui, e la morte è nostra inevitabile parte.Ma questa vita tra
la Risurrezione di Cristo e il giorno della risurrezione comune, non è proprio
la vita nel Grande Sabato? Non è l’attesa la categoria di base ed essenziale
dell’esperienza cristiana? Noi
aspettiamo nell’amore, nella speranza e nella fede. E questo nell’attesa per “la
risurrezione e la vita del mondo a venire”, questa vita che è “nascosta con
Cristo in Dio” (Colossesi 3, 34), questa crescita dell’attesa nell’amore, nella
certezza; tutto questo è il nostro “Grande Sabato”. A poco a poco, tutto in
questo mondo diventa trasparente per la luce che proviene da lì, “l’immagine di
questo mondo” passa e questo attraverso l’indistruttibile vita con Cristo
diventa il nostro supremo e ultimo valore. Ogni anno, al Grande Sabato, dopo
questo ufficio mattutino, siamo in attesa per la notte di Pasqua e la pienezza
della gioia Pasquale. Sappiamo che ci stiamo avvicinando – e ancora, come è
lento questo approccio, come è lungo questo giorno! Ma non è la meravigliosa
quiete del Grande Sabato il simbolo della nostra stessa vita in questo mondo?
Non siamo sempre in questo “giorno intermedio”, nell’attesa della Pasqua di
Cristo, preparandoci per il giorno senza tramonto del suo Regno?
Di Padre
Alexander Schmemann
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