mercoledì 27 novembre 2013

Pontificio Istituto Orientale: Facoltà di Diritto Canonico Orientale





Giornata di Studio in occasione del Venticinquesimo Anniversario della Costituzione Apostolica «Pastor Bonus» (1988-2013):

La Costituzione Apostolica “Pastor Bonus” venticinque anni dopo: riflessioni e prospettive.


Lunedì 2 Dicembre 2013 - ore 10:00 - Aula Magna


Interverranno: 
S.Em.za Rev.ma il Sig. Card. Francesco Coccopalmerio;
S.Ecc.za Rev.ma Mons. Prof. Cyril Vasil’ S.J.;
S.E. Mons. Prof. Pio Vito Pinto;
Rev.mo Mons. Prof. Maurizio Malvestiti;
Rev. P. Prof. Lorenzo Lorusso O.P.;
Prof. Giovanni Coco

sabato 16 novembre 2013

È forse questo il digiuno di cui mi compiaccio, il giorno in cui l'uomo si umilia?




Nella tradizione delle Chiese Orientali sia quella Ortodossa che quella Cattolica di rito Bizantino, il quindici di novembre, iniziano il digiuno natalizio per prepararsi l’anima e il corpo alla nascita del Signore nostro salvatore Gesù Cristo, come espressamente ci  lo dice l’Ikos del quindici novembre: «…con anima e corpo liberi…», allora il digiuno è l’Arma che ogni cristiano è tenuto a viverla per poter liberarsi dalla servitù delle passioni per poter ospitare il Cristo nato, e per poter partorire la Parola predicando nel suo nome, seguendolo sempre come esempio di vita per la salvezza personale e comune.
Ognuno di noi è invitato per digiunare per se stesso e per la comunità, come ce lo fa vedere e rivivere l’Antico testamento, quando uno della comunità cadeva in disgrazia, l’intera comunità digiunava con lui e per lui. Questo segno ci insegna l’unità che Cristo ci ha chiamato a viverla tra di noi come figli nati alla sua immagine e somiglianza, «Poiché io sono il SIGNORE, il vostro Dio; santificatevi dunque e siate santi, perché io sono santo» (Lev. 11,44).
L’uomo nella sua vita fa tutto per se, per la sua ricchezza culturale e materiale, ma il digiuno lo fa a Dio, in cui innalza la sua preghiera a Dio altissimo chiedendo perdono, grazia, guarigione come anche potrebbe chiedere ringraziamento per quello che ha o per quello che ha avuto. Il digiuno ha tantissimi interpretazioni pratiche, può essere digiuno di parola, in cui l’uomo vive il periodo del digiuno in silenzio fisico cercando di ottenere quello interno per poter incontrare il Signore. Potrebbe essere un digiuno del cibo, digiuno delle brutte parole, delle offese…
Una chiamata al digiuno prefestivo per cogliere la possibilità di incontrare il Signore con purezza vestendoci di Luce. Una teologia profonda adottata non soltanto dai Cristiani ma anche dai fratelli Musulmani, dove nella Sura di Mariam (Maria madre di Issa «Gesù») dopo aver partorito Issa, promette il suo Signore di digiunare per ringraziarlo in primo luogo per la nascita del suo figlio e in secondo luogo per il dono dell’acqua e dei datteri che le ha dati per poter allattare il bambino. Ma non soltanto cosi, Issa figlio di Maria ha parlato nella culla come esprimono i versetti seguenti pronunciando la parola di Dio Padre, Dicendo: «Sono il Servo di Dio che mi ha dato la Parola e mi ha reso Profeta, e mi ha reso benedetto dovunque vado, mi ha raccomandato la preghiera e gli atti di carità fino alla mia morte, … e che la pace sia su di me il giorno della mia nascita, della mia morte e della mia resurrezione» (Surat Mariam versetti 30-33).
Quello che possiamo estrarre di quei versetti sono, la fedeltà di Mariam al suo Dio che ha portato Issa nel suo grembo con fiducia nel Signore e ha partorito la Sua Parola, che è Issa, ma come Issa nel Corano è un essere umano e non è Dio, questi versetti sono una esortazione a noi essere umani su questa terra, corruttibili, peccatori… questa esortazione è di rinascere con la nascita del Signore, puri con doni e grazie per poter proclamare la sua Parola, facendo atti di carità con umiltà pregando al Signore che ci dia la grazia di poter continuare il cammino verso la santità personale e comune, soltanto cosi uniti possiamo vedere Cristo nato in Noi e per Noi.
Il Tipikon (Codice Liturgico) richiede la lettura dei quattro vangeli dal lunedì dopo la domenica delle Palme al mercoledì sera, senza leggere i testi della passione che verranno letti il Giovedì Santo, la stessa cosa la vediamo nella Sharia che obbliga la lettura del Corano durante il digiuno di Ramadan, il mese in cui l’Angelo Gabriele ha dettato il Corano a Mahometo, il mese in cui i musulmani si dedicano alla preghiera e la lettura del corano e pure a fare degli innumerevoli atti di carità. Tantissimi di noi ora diranno e dopo il digiuno fanno e fanno e fanno. Io dico pure lo stesso. Ma noi cosa facciamo?
Forse pure tanti di noi dicono, ma lo fanno perche è obbligatorio, bene. La chiesa ci ha lasciato la libertà perché siamo nati liberi, Dio ci ha dato la libertà di scegliere il bene del male, allora vi esorto a scegliere la strada giusta, e vi invito a cominciare questo digiuno come primo digiuno serio mai fatto, e facciamolo con fiducia nella sua misericordia e umiltà nei nostri atti ringraziando il Signore per tutto quello che ci ha dato, chiedendolo perdono e illuminazione per poter scegliere e camminare nella via giusta verso la santità.
 «Il digiuno che io gradisco non è forse questo: che si spezzino le catene della malvagità, che si sciolgano i legami del giogo, che si lascino liberi gli oppressi e che si spezzi ogni tipo di giogo? Non è forse questo: che tu divida il tuo pane con chi ha fame, che tu conduca a casa tua gli infelici privi di riparo, che quando vedi uno nudo tu lo copra e che tu non ti nasconda a colui che è carne della tua carne? Allora la tua luce spunterà come l'aurora, la tua guarigione germoglierà prontamente; la tua giustizia ti precederà, la gloria del SIGNORE sarà la tua retroguardia. Allora chiamerai e il SIGNORE ti risponderà; griderai, ed egli dirà: "Eccomi!" Se tu togli di mezzo a te il giogo, il dito accusatore e il parlare con menzogna; se tu supplisci ai bisogni dell'affamato, e sazi l'afflitto,la tua luce spunterà nelle tenebre,e la tua notte oscura sarà come il mezzogiorno; il SIGNORE ti guiderà sempre,ti sazierà nei luoghi aridi, darà vigore alle tue ossa; tu sarai come un giardino ben annaffiato, come una sorgente la cui acqua non manca mai». (Lev. 58, 6-11)


di Michel Skaf, alunno P.C.G.

martedì 5 novembre 2013

Presentazione del libro: Il soffio dell’Oriente Siriaco





Far conoscere i tesori delle liturgie dell’Oriente Cristiano. È questo l’intento del volume di padre Manuel Nin “Il soffio dell’Oriente Siriaco. L’anno liturgico Siro Occidentale”, che sarà presentato venerdì 8 novembre alle ore 17.30 presso la Libreria internazionale Paolo VI  di Roma (via di Propaganda, 4).

Interverranno S. Ecc.za Mons. Cyril Vasil’, segretario della Congregazione per le Chiese Orientali, e Alberto Camplani, docente presso l’Università di Roma La Sapienza e l’Istituto Patristico Augustinianum. L’incontro sarà moderato da Giovanni Maria Vian, direttore de L’Osservatore Romano, giornale sul quale sono apparsi gli articoli raccolti in questa pubblicazione, che illustrano il ciclo liturgico siro occidentale a partire dai testi liturgici stessi, accompagnati dalle icone della festa che viene trattata.

 “Le Chiese di tradizione siriaca – rileva nell’introduzione fratel Sabino Chialà, monaco di Bose –, delle quali quest’opera di padre Manuel Nin presenta le ricchezze liturgica, letteraria e iconografiche, attestano un altro Oriente, antico, ricco di tradizione e con una fisionomia peculiare”. In questo volume, “l’archimandrita Manuel Nin offre al lettore uno sguardo al magnifico tesoro di testi, in prosa ed in versi, scelti per l’uso lungo l’anno liturgico nella tradizione liturgica di Antiochia, sia nella Chiesa Siro Ortodossa che nella Chiesa Siro Cattolica”, spiega nella prefazione Sebastian Brock, uno tra i massimi studiosi della tradizione siriaca.


“Scelti in modo ammirevole e con una bella introduzione – annota ancora Brock –, i testi che in questo libro vengono tradotti e pubblicati daranno al lettore un’eccellente idea della ricchezza delle immagini simboliche che è una delle caratteristiche di questa poco conosciuta tradizione liturgica”.

Ufficio Stampa LEV

venerdì 1 novembre 2013

Divina Liturgia Pontificale




Domenica 3 Novembre alle ore 10:30
presso la Chiesa di S. Atanasio dei Greci  in Roma
 S.E. Mons. Donato Oliverio Eparca di Lungro
celebrerà la Divina Liturgia 


giovedì 31 ottobre 2013

“La Notte dei Santi”, una risposta cristiana ad Halloween





Esperienze di gioia e riflessione, alternative alla feste di zucche, streghe e maghi.
Le proposte dei giovani delle chiese di Roma e Torino

LUCA ROLANDI
ROMA


Una festa all'insegna della musica e della preghiera si svolgerà al Teatro Orione alla vigilia della solennità liturgica di tutti i Santi..''La Notte dei Santi'', l'iniziativa organizzata dal Servizio per la pastorale giovanile della diocesi di Roma insieme alla diocesi di Palestrina guidata da monsignor Domenico Segalini, l'Azione Cattolica Italiana, la Comunità Gesù Risorto, Nuovi Orizzonti e a Aleteia, si pone l‘obiettivo di: ''Offrire ai giovani delle nostre comunità la possibilità di vivere in maniera bella e gioiosa la festa dei Santi per far scoprire loro il senso profondo di questa festa, che purtroppo ci è stata ''scippata'' dalla cultura moderna'', come spiega don Maurizio Mirilli, direttore del Servizio diocesano per la pastorale giovanile della diocesi di Roma.    Un plauso è giunto dal vicario il cardinale Agostino Vallini, che in un messaggio ha espresso “l'augurio che la serata susciti nei cuori di tutti i partecipanti il desiderio di percorrere con decisione la via della santità, in modo da diventare testimoni della bellezza del Vangelo, come i Santi lo sono stati per il loro tempo”. Non solo a Roma, sono infatti molte le iniziative  previste nelle diverse realtà ecclesiali italiane. A Torino per esempio  è prevista una analoga manifestazione “La Notte dei santi 2013: generati da Dio”,  che prevede un cammino e veglia nella chiesa della Gran Madre con  la partecipazione del vescovo Nosiglia. Il responsabile della Pastorale giovanile don Luca Ramello illustra la proposta. “Certamente non possiamo negare che i mutamenti culturali che hanno coinvolto la festa di Halloween condizionino in qualche modo la nostra proposta. Ma nel pieno svolgimento del nostro "Sinodo dei Giovani" per noi è una grazia poter ascoltare i giovani credenti anche su questo aspetto. Halloween è un fenomeno complesso, con una forte componente commerciale sulla quale si innestano talvolta fenomeni di superficialità e non di rado ideologici, ma altre volte rappresenta la semplice cornice tematica per far festa in maniera alternativa.

 "Per questo" continua don Luca "Lo spirito con cui sono state pensate le edizioni dello scorso anno e di quest'anno di "Con sale in zucca" è proprio questo: "è evidente l'influsso culturale su una festa cristiana così importante (la "zucca"), non se può prescindere ma è possibile vivere a nostra volta questo slittamento culturale con intelligenza e sagacia evangelica (il "sale"), mostrando la bellezza della comunione dei Santi e la forza della fede cristiana sul mistero della morte, con scioltezza e franchezza ma senza cedimenti polemici o di contrapposizione acritica”. Don Ramello infine sottolinea il collegamento con la festa della Gmg di Rio e la notte dei santi, dentro ad un cammino di diocesano: "L'esperienza della Pastorale giovanile e a Torino il Sinodo dei giovani. In fondo il generati da Dio, il legame con la santità sono segni distintiti della prospettiva cristiana. Il legame tra queste tre dimensioni per noi è stato riassunto in una parola, sintesi del messaggio dell'Arcivescovo di Torino ai giovani consegnato allo start up della pastorale giovanile nel mese scorso: "Andate!”. E' anche l’invito del Papa e quello dell’arcivescovo “un ‘andare’ come Chiesa che trova la sua meta, il suo stile e la sua forza dall'essere innestati in Gesù. Nel secondo anno di Sinodo dei giovani l'accento è sulla reale capacità di camminare insieme tra generazioni diverse, tra giovani e adulti. La “Veglia di Tutti i Santi”, «Generatida Dio» è allora un richiamo sintetico a queste dimensioni: nella fede come nella vita nessuno genera se non è generato e tutti siamo chiamati, a nostra volta, a generare, ciascuno secondo la propria vocazione. E questo è principio di santità”.  Più rigida la posizione espressa, don Aldo Bonaiuto responsabile del Servizio anti-sette della Comunità Papa Giovanni XXIII, che spiega come, qualche volta, si celi, dietro la festa di Hallowen una cultura anticristiana: Per questo ha anche lanciato un appello alla vigilanza al ministro dell'Istruzione Maria Chiara Carrozza. Il prete antisette ha istituito un numero verde al  quale sono arrivate in questi giorni numerose telefonate di genitori allarmati per il coinvolgimento dei figli in iniziative scolastiche legate ad Halloween. Dal monitoraggio effettuato dal servizio-sette emerge una crescita dei fenomeni satanici, a loro volta legati ad Halloween: 28 casi di furti di ostie consacrate dall'inizio dell'anno, 17 furti di reliquie, 47 casi di profanazione di luoghi sacri. "Halloween - attacca il prete anti-sette - è il capodanno del demonio. I satanisti rubano le ostie per poi mischiarle con la droga realizzando così, quella che loro definiscono, la comunione del diavolo". 



mercoledì 23 ottobre 2013

L'anafora di San Giacomo fratello del Signore



Ammutolisca ogni carne umana

di Manel Nin


Il 23 ottobre, nella tradizione bizantina, si celebra la memoria di san Giacomo, fratello del Signore, primo vescovo di Gerusalemme. Nel Pontificio Collegio Greco di Roma, la domenica più vicina a questa data si celebra, ormai da alcuni decenni, la Divina liturgia con una anafora che la tradizione bizantina ha lasciato cadere praticamente del tutto e che invece la tradizione siro-occidentale usa molto spesso, assieme all'anafora dei Dodici apostoli. L'anafora di san Giacomo si trova in diverse versioni linguistiche ma specialmente in greco e in siriaco, che a sua volta sarebbe la traduzione da un testo greco più semplice e arcaico dell'attuale. Per entrambe le versioni, l'attribuzione a san Giacomo, fratello del Signore, è unanime. Ci sono poi versioni georgiana, armena, etiopica, a dimostrazione dell'importanza che questo testo ebbe almeno durante il primo millennio. È chiaro che si tratta di una liturgia che proviene da Gerusalemme, con molti riferimenti a personaggi veterotestamentari (Abele, Noè, Abramo, Zaccaria), ai luoghi santi, alla Gerusalemme celeste, con l'ingresso nel Santo dei Santi, la processione del piccolo ingresso con l'evangeliario e la croce, le diverse preghiere - collegate col salmo 140 - di benedizione dell'incenso. Riguardo alla datazione ci sono diverse ipotesi che la collocano tra la fine del III secolo fino al VI o VII secolo. È sicuramente un testo elaborato in diverse tappe, ma già quasi completo alla fine del IV secolo. L'anafora di san Giacomo è teologicamente molto diversa da quella di san Giovanni Crisostomo e da quella di san Basilio, e si tratta chiaramente di una liturgia di tipo antiocheno. Nella prassi costantinopolitana l'anafora non è più in uso, e ora viene celebrata soltanto il 23 ottobre a Gerusalemme, nelle isole di Zante e di Cipro e, a Roma, a Sant'Atanasio in una domenica attorno al 23 ottobre. La struttura della celebrazione è un po' diversa da quella abituale nella tradizione bizantina e prevede, almeno per la liturgia dei catecumeni, che essa sia celebrata nel bèma, cioè lo spazio nel centro della navata della chiesa - nelle chiese siriache è uno spazio chiuso anche da un cancello - dove si collocano un ambone per l'evangeliario e un tavolino per la croce; attorno all'evangeliario e alla croce si dispongono il sacerdote col diacono e i preti concelebranti e lì si svolge tutta la liturgia della Parola. La liturgia eucaristica, poi, viene celebrata nel santuario. Nella struttura sono da sottolineare alcuni elementi. Innanzi tutto, l'avvio del Piccolo ingresso subito all'inizio della liturgia, senza le tre antifone della liturgia di san Giovanni Crisostomo, fatto che accomuna questa liturgia con quelle di tradizione siriaca e che ne indica anche una notevole arcaicità. Nelle diverse litanie fatte dal diacono rivolto verso il popolo, nell'ultima petizione - "Facendo memoria della Tuttasanta, Immacolata" - si aggiungono sempre Giovanni Battista, i profeti, gli apostoli, i martiri, e in una di esse anche Mosè, Aronne, Elia, Eliseo, Samuele, Davide, Daniele. Le letture vengono fatte dal bèma, il luogo centrale dove viene proclamata la Parola e dove anche viene commentata. L'inno Ammutolisca ogni carne umana, che prende il posto dell'inno cherubico dell'anafora di san Giovanni Crisostomo ed è lo stesso cantato nel Sabato santo nella liturgia di san Basilio. Infine, lo scambio di pace dopo il Credo, che nella liturgia di san Giovanni Crisostomo è rimasto soltanto tra il clero. L'anafora di san Giacomo viene inquadrata, come d'altronde anche le altre anafore cristiane, tra due grandi movimenti di lode a Dio all'inizio: "È veramente cosa buona e giusta, conveniente e doverosa, lodare inneggiare, adorare, glorificare e rendere grazie a Te, creatore delle cose visibili e invisibili"; e alla fine la conclusione del sacerdote: "Per la grazia, la misericordia e l'amore per gli uomini del tuo Cristo, con il quale sei benedetto e glorificato insieme con il santissimo buono e vivificante tuo Spirito". Cioè il movimento che va dall'opera creatrice di Dio alla sua opera di santificazione operata da Cristo per mezzo dello Spirito; dalla creazione, alla redenzione, alla santificazione. Nell'anafora di san Giacomo non vi è, come in altre anafore, l'enumerazione di tutta una serie di attributi apofatici di Dio - invisibile, incomprensibile, incommensurabile - ma, nell'introduzione, soltanto quella di tre titoli: "Creatore di tutte le cose, tesoro dei beni, sorgente di vita e di immortalità", e poi a lungo quella di tutte le schiere chiamate a questa lode: i cieli, il sole, la luna, la terra, il mare, la Gerusalemme celeste, la Chiesa dei primogeniti, i giusti, i profeti, i martiri, gli apostoli, cherubini, serafini. In altre parole sono tutto il creato e tutta la chiesa che sono attirate alla lode di Dio. Prima della narrazione dell'istituzione dell'eucaristia e dell'epiclesi, l'anafora di san Giacomo narra la storia della salvezza; notiamo una serie di verbi che la scandiscono: "hai avuto compassione, hai creato l'uomo; lui cadde, ma non lo hai disprezzato, non lo hai abbandonato, ma corretto, richiamato, guidato". E alla fine della narrazione vi è la proclamazione del mistero centrale della fede cristiana: "Infine hai inviato nel mondo il tuo proprio Figlio unigenito, nostro Signore Gesù Cristo, perché egli con la sua venuta rinnovasse e risuscitasse la tua immagine". La venuta di Cristo rinnova nell'uomo l'immagine di Dio; in questa frase si ritrova la dottrina sulla salvezza dei padri della Chiesa, da Ignazio di Antiochia a Ireneo, da Origene ad Atanasio e Ambrogio. È importante sottolineare questa centralità del destino dell'uomo nella provvidenza di Dio, nella linea dello stesso Cirillo di Gerusalemme nelle sue Catechesi: "Tutte le creature sono belle, ma ce n'è soltanto una a immagine di Dio e questa è l'uomo. Il sole è stato fatto da un ordine; l'uomo, invece, è stato fatto dalle mani di Dio: facciamo l'uomo a nostra immagine e somiglianza". L'anafora di san Giacomo evidenzia un aspetto importante: l'immagine di Dio maltrattata dall'uomo viene rinnovata - cioè ricreata - da Cristo. Questa nuova creazione avviene nella sua incarnazione e l'anafora dice che Cristo "è disceso, si è incarnato, è vissuto insieme, ha disposto tutto". Nell'epiclesi, il dono dello Spirito viene chiesto sui fedeli e sui doni presentati: "Manda su di noi e su questi santi doni che ti presentiamo il tuo Spirito Santissimo". Il testo ha una formulazione trinitaria che sembra conoscere già la formula di Costantinopoli del 381: "Signore e vivificante, consustanziale, condivide l'eternità". Poi ancora l'anafora accenna ad alcuni momenti scritturistici di discesa dello Spirito Santo legati anche ad ambiente gerosolimitano: "è sceso sotto forma di colomba nel Giordano, sui santi apostoli nella camera alta della santa e gloriosa Sion". Ancora l'epiclesi chiede come frutto della santificazione dello Spirito che i doni diventino Corpo e Sangue di Cristo e che la Chiesa sia santificata e rimanga stabile nella roccia della fede. L'azione dello Spirito, in questa anafora, viene strettamente collegata alla sua azione lungo tutta la storia della salvezza; lui "ha parlato nella Legge, nei Profeti e nella nuova Alleanza". Essendo il testo di origine gerosolimitana, è importante sottolineare il collegamento tra lo stesso Spirito che parla nell'antica e nella nuova Alleanza: quello Spirito che parla nella Legge, nei profeti, nella nuova Alleanza, scende su Cristo, sugli apostoli, sui santi doni presentati (e qui si possono aggiungere tutti gli altri sacramenti: le acque battesimali, il santo crisma). L'epiclesi ha pure una chiara dimensione ecclesiologica, che verrà in qualche modo sottolineata di nuovo nella grande preghiera di intercessione alla fine dell'anafora, la quale ha ancora degli accenni chiaramente gerosolimitani: "a sostegno della tua santa Chiesa cattolica e apostolica che hai stabilito sulla roccia della fede. Ti offriamo questo sacrificio per la tua santa e gloriosa Gerusalemme, madre di tutte le Chiese. Ricordati di questa santa tua città. Ricordati Signore di tutti i cristiani che sono andati o si recano nei luoghi santi di Cristo". I frutti della discesa dello Spirito sono quindi la santificazione dei doni e, per mezzo di essi, la santificazione della Chiesa. La comunione al Corpo e al Sangue di Cristo porta la comunità, la Chiesa alla pienezza della forza dello Spirito. Questo Spirito invocato sulla comunità le viene dato attraverso la comunione ai Santi Doni; lo Spirito costruisce il corpo ecclesiale di Cristo per mezzo della santificazione, della divinizzazione di coloro che vi si comunicano. Già sant'Efrem ha un bellissimo testo in questa stessa linea: "Nel tuo pane si nasconde lo Spirito che non può essere consumato; nel tuo vino c'è il fuoco che non si può bere. Lo Spirito nel tuo pane, il fuoco nel tuo vino: ecco una meraviglia accolta dalle nostre labbra. Il serafino non poteva avvicinare la brace alle sue dita, che si avvicinò soltanto alla bocca di Isaia; né le dita l'hanno presa né le labbra l'hanno mangiata; ma a noi il Signore ci ha concesso di fare ambedue le cose. Il fuoco discese con ira per distruggere i peccatori, ma il fuoco della grazia discende sul pane e vi rimane. Invece del fuoco che distrusse l'uomo, abbiamo mangiato il fuoco nel pane e siamo stati vivificati". Durante la litania prima del Padre nostro, il sacerdote silenziosamente fa una preghiera in cui chiede la purificazione delle anime e dei corpi e fa un elenco di vizi che devono essere purificati che ricorda tantissimo quelli che poi si ritroveranno nei testi di origine monastica (regole, lettere, ammonimenti): "allontana da noi invidia, arroganza, ipocrisia, menzogna, astuzia, desideri mondani, vanagloria, ira, ricordo delle offese". La liturgia di san Giacomo rispecchia, quindi, tre aspetti importanti: la centralità della lode di Dio da parte di tutta la creazione e di tutta la Chiesa; la restaurazione (ricreazione) dell'immagine di Dio nell'uomo per l'opera di Cristo; l'azione santificatrice dello Spirito nella storia della salvezza, sui doni, sui credenti. Celebrare la liturgia di san Giacomo, almeno una volta all'anno, è semplicemente fare dell'archeologia liturgica? O, magari, rivendicare il patrimonio liturgico gerosolimitano di fronte all'influsso a livello liturgico che Costantinopoli ebbe sugli altri patriarcati? No, non soltanto celebrare l'anafora di san Giacomo - come tutte le altre anafore cristiane - è celebrare il mistero della morte e risurrezione del Signore, ma è anche celebrare con una anafora che mette di fronte ad aspetti teologici, ecclesiologici, liturgici e anche architettonici un po' diversi da quelli a cui si è abituati nella tradizione bizantina, e soprattutto è celebrare con una anafora che rende presente la comunione con la Chiesa di Gerusalemme, madre di tutte le Chiese cristiane. "Camminando di potenza in potenza e celebrando la divina liturgia nel tuo tempio, ti preghiamo, rendici degni - recita la preghiera di congedo dell'anafora di san Giacomo - del perfetto amore degli uomini. Raddrizza la nostra via, fortificaci nel tuo timore. Abbi pietà di tutti e rendili degni del tuo Regno celeste nel Cristo Gesù nostro Signore"

giovedì 26 settembre 2013

Notizie dalla Santa Sede





Città del Vaticano, 26 settembre 2013

Il Santo Padre ha nominato il Padre Archimandrita Manuel Nin,
 Rettore del Pontificio Collegio Greco in Roma,
Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche
del Sommo Pontefice.

Al Nostro Rev. Rettore porgiamo i nostri più calorosi auguri.


lunedì 23 settembre 2013

Maaloula. Per non dimenticare…


Veduta panoramica del villaggio di Maaloula - Siria


Il giorno 24 settembre nei calendari liturgici delle Chiese cristiane si celebra la festa di santa Tecla, che nel sinassario della Chiesa bizantina viene chiamata “megalomartire e isapostola (pari agli apostoli)”, a causa del suo tradizionale vincolo con l’apostolo Paolo. La celebrazione di questa grande martire, mi ha portato nel ricordo e nella preghiera a Maaloula, quel luogo nella Siria che ne custodisce il sepolcro, che dal primo secolo fino ai nostri giorni conserva la testimonianza del sangue versato per Cristo. La celebrazione di santa Tecla mi ha portato anche alla sponda occidentale del Mediterraneo, alla sede “paolina” di Tarragona che venera Tecla in modo speciale. Tra le due rive del Mediterraneo la festa della santa martire diventa una festa oserei dire “pontifex” tra Oriente ed Occidente, dalla Siria a Tarragona. Oriente ed Occidente che hanno camminato insieme lungo i secoli nella devozione ai martiri, adeso nei nostri giorni non possono ignorarsi nella difesa e nella memoria dei cristiani delle terre del prossimo oriente.
Maaloula è un piccolo e bellissimo villaggio della Siria, arroccato nelle montagne che fanno di frontiera con il Libano; quasi la porta di passaggio o di ingresso tra l’uno e l’altro dei due paesi fratelli. Infatti il significato siriaco della parola Maaloula è “entrata, ingresso”. È un piccolo villaggio con delle casupole che scendono verso la valle, verso il deserto lungo la schiena delle montagne del Qalamun, la catena dell’Antilibano. 



Vi risiedono qualche migliaio di persone a maggioranza cristiana, e si trova a una cinquantina di chilometri a nord di Damasco. Questo villaggio incorniciato tra le montagne e il deserto, di una bellezza unica; piccolo alveare di case bianche che fanno un tutt’uno quasi senza soluzione di continuità col giallo delle montagne; questo piccolo borgo che possiede uno dei monasteri più antichi della zona dedicato ai santi martiri Sergio e Baco, curato dai monaci salvatoriani della Chiesa melchita greco cattolica; questo paesino che custodisce il corpo della santa martire Tecla, la discepola di Paolo; questa piccola comunità che si esprime nella lingua con cui il Signore insegnò ai suoi discepoli a pregare e dire “Abbun…”, Padre nostro... Questo villaggio piccolo, luminoso dal biancore delle mura delle case e dalla fede dei suoi abitanti a stragrande maggioranza cristiani, sia greco cattolici che ortodossi; curato e custodito come un gioiello da coloro che da secoli vi abitano, nei nostri giorni è emerso in prima pagina della cronaca, per pochi giorni purtroppo come notizia, ma per molti giorni, troppi silenziosamente martellato e trucidato dalle armi impietose di coloro il cui unico linguaggio è la costrizione e la violenza; un linguaggio che non conosce sicuramente quella lingua con cui il Signore insegnò a perdonare e pregare per i perseguitori. Paesino luminoso che nei nostri giorni si è tinto di rosso, di nero… Di rosso col sangue di tanti dei suoi abitanti che l’hanno versato per causa della loro fede in Colui che parlava la loro stessa lingua, in Colui che insegna loro il perdono, la riconciliazione; in Colui che chiama loro e anche noi “beati” quando siamo operatori di pace, quando siamo perseguitati, uccisi a causa del suo nome. Di nero dal fumo delle chiese, delle case e dei monasteri bruciati e distrutti; dal fumo delle armi, e dell’accecamento che impedisce di vedere altro cammino che l’uso della forza e della morte.


Interno dell Chiesa Ortodossa di Maaloula

Visitai quella regione nel mese di luglio 2008 assieme a un gruppetto di due sacerdoti e due seminaristi greco cattolici libanesi e siriani. Una visita di soltanto due giorni in quella parte della Siria, un viaggio che comprese Damasco, Maaloula e Saydnaya, un altro paesino questo a pochi chilometri dal primo con delle testimonianze cristiane importanti. Fu certamente un pellegrinaggio al luogo della conversione di Paolo, la visita a quella “via diritta” a cui fu mandato Anania alla ricerca di quell’uomo accecato dalla luce del Risorto; il camminare per quelle stradine della vecchia Damasco, quei cunicoli da cui pareva che da un momento all’altro poteva apparire l’apostolo delle genti in tutta la sua statura, con tutta la forza della sua parola. Potei stare poche ore in quel luogo ma gustai l’accoglienza fraterna dei sacerdoti del patriarcato greco cattolico di Damasco. La visita a Maaloula e Saydnaia invece fu di un giorno e mezzo; è una regione che conta con una grande quantità di chiese e di monasteri. La tradizione vuole che santa Tecla si sia rifugiata nella zona di Maaloula per sfuggire alla persecuzione della sua famiglia dopo essersi convertita al cristianesimo grazie a San Paolo. Per nascondersi ai persecutori Tecla fuggendo si rifugiò tra le montagne che aprirono come un grembo le sue pareti per farle un passaggio; fessure tra le montagne ancora visibili nei nostri giorni. 


Sacerdote celebra la Divina Liturgia,

Nel monastero di Mar Sarkis (san Sergio) fummo accolti dal monaco salvatoriano che in quei giorni si trovava come custode del luogo; già alunno del Pontificio Collegio Greco di Roma, è uno dei principali conoscitori e studiosi delle tradizioni musicali bizantine. L’accoglienza veramente fraterna protrattasi per un paio d’ore attorno a un caffè, ma soprattutto attorno alla storia di quel luogo venerabile raccontata con la passione e l’amore di qualcuno che racconta la storia della propria famiglia, la storia “di casa”; la visita dettagliata del monastero, della bellissima chiesa, con delle icone di uno splendore unico, attorno a quell’antichissimo altare semi circolare sicuramente precedente al concilio di Nicea del 325; accoglienza veramente fraterna che si concluse con la preghiera del Padrenostro nella lingua del Figlio Unigenito, Verbo di Dio incarnato.
            
Oggi le notizie, che ci arrivano di Maaloula sono poche, confuse, frammentarie, ma tutte ci parlano di sofferenza, di distruzione, di morte. Di persone innocenti, uomini, donne, bambini, preda della rabbia ceca. Oggi Maaloula è stata saccheggiata nelle loro chiese, monasteri, case; nelle loro sacre icone, rubate e profanate; in quella che è l’icona per eccellenza, l’uomo e la donna di quei luoghi da sempre pacifici, tolleranti, dialoganti, da sempre beati perché operatori di pace. Quasi duemila anni fa le montagne siriane attorno a Maaloula si aprirono per accogliere la grande martire Tecla; quelle stesse montagne, quelle stesse terre continuano ad aprirsi e accogliere oggi le lacrime, il sangue, la testimonianza cristiana dei nostri fratelli che in quei luoghi come Tecla confessano Cristo, confessano il Risorto che continua, ne siamo certi, a farsi vivo nel cammino di Damasco.

P. Manuel Nin, Pontificio Collegio Greco,Roma.




martedì 17 settembre 2013

Corso di Greco Moderno



L’Apostoliki Diakonia della Chiesa di Grecia
che ha il suo centro ad Atene, offre per il II° semestre dell'Anno Accademico 2012-2013 presso il Pontificio Istituto Orientale in Roma un corso di GRECO MODERNO che inizierà sabato 16 febbraio 2013 e finirà sabato 1 giugno 2013.


Sarà tenuto dal Prof. Christos Palaskonis, laureato in filologia all'Università di Atene e specializzato nell'insegnamento del neogreco come lingua straniera.
Il corso, aperto a tutti gli studenti, è gratuito e chi parteciperà sarà fra i primi a poter beneficiare d'una borsa di studio che, da ormai nove anni, il Direttore Generale dell'Apostoliki Diakonia, Mons. Agathangelos vescovo di Fanarion, offre per i corsi estivi in Grecia.

Tutti gli interessati possono effettuare la preiscrizione in Segreteria del

Pontificio Istituto Orientale
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venerdì 13 settembre 2013

L’omelia di Severo di Antiochia per l’Esaltazione della santa Croce


Icona Stavroteka, Collezione privata

Oggi la croce diventa legno della misericordia e della carità di Dio.

            La festa del 14 di settembre porta come titolo nei libri liturgici di tradizione bizantina: “Universale Esaltazione della Croce Preziosa e Vivificante”; è una festa di origine gerosolimitana collegata alla dedicazione della basilica della Risurrezione edificata sulla tomba del Signore nel 335. Presentiamo un’omelia tenuta in questa festa, dal vescovo Severo, patriarca di Antiochia. Nato a Sozopoli di Pisidia nell’Asia Minore nella seconda metà del V secolo. Diventato monaco nel monastero di Maiuma di Gaza, ben presto aderì a posizioni cristologiche in confronto con quelle emerse dal concilio di Calcedonia del 451. Per tre anni, dal 509 al 512 abitò a Costantino­poli, e il 6 novembre del 512 fu eletto patriarca di Antiochia. Sei anni dopo, nel 518, l'elezione imperiale di Giustino provocò una forte reazione pro calcedo­niana; e Severo fu deposto e fuggì nell'Egit­to, dove morì l'8 febbraio 538. Le sue opere, distrutte nel suo originale greco, si conservano in una traduzione siriaca e frammenti di una traduzione copta. Durante i sei anni del suo episcopato ad Antiochia, Severo predicò le 125 omelie chiamate "cattedrali", cioè predicate nel periodo che occupò la cattedra antiochena. Buon predicatore, Severo mostra in queste omelie i due aspetti più importanti della sua personali­tà: da una parte il teologo, preoccupato per la fedeltà ad una cristologia d'accordo con quella che per lui è la tradizione dei Padri; dall'altra il monaco e il pastore che commenta per la sua Chiesa la Parola di Dio. Di Severo per la festa dell’Esaltazione della santa Croce abbiamo un’omelia, predicata il 14 settembre 513. Alcuni indizi lungo l’omelia, ci indicano che durante la celebrazione liturgica è stata fatta un’ostensione e una benedizione con la croce e una sua venerazione da parte dei fedeli.
            Severo inizia la sua omelia spiegando al suo uditorio il perché della celebrazione odierna: allo stesso modo che nell’Antico Testamento si parla della celebrazione annuale della dedicazione del tempio, anche per i cristiani la celebrazione della croce suppone la venerazione di quel segno, la croce, con cui si consacrano i templi cristiani e i fedeli stessi: “Se per il tempio di Gerusalemme gli antichi celebravano la prima dedicazione…, anche noi dobbiamo celerare questa festa in onore della croce venerabile di nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, essa che consacra ogni tempio e porta a termine ogni sacrificio spirituale…”. Severo insiste nel sottolineare che la croce si celebra non perché essa ne abbia bisogno, ma perché la nostra vita cristiana ha bisogno di questo rinnovamento: “Non che il ricordo della croce sia invecchiato in noi…; ma vi mostriamo e vi presentiamo la croce perché è l’inizio di una vita nuova ed evangelica…”.
            Severo poi sviluppa tutto un parallelo tra l’albero del paradiso e l’albero della croce: “Quando parlo della croce parlo dell’albero, dell’antico e del nuovo; l’antico che fu piantato nel bel mezzo del paradiso e di cui non si poteva mangiare il frutto…; il nuovo in cui fu crocefisso Colui che si era incarnato…”. La croce è il vero albero della conoscenza del bene e del male; ed è importante notare che il bene, per Severo, è la confessione di fede trinitaria e la vera professione di fede ortodossa (nella linea cristologica severiana opposta al concilio del 451): “La croce ha fatto risplendere su di noi l’insegnamento della predicazione evangelica e quindi abbiamo corso verso il bene che è la fede nella Santa Trinità e la professione di fede senza errore; e ci siamo allontanati dal male…”. Proseguendo con il parallelo tra i due alberi, Severo presenta il Verbo di Dio incarnato, che lui nell’omelia chiamerà sempre l’Emmanuele, come colui che insegna ai cristiani la vera conoscenza del bene e del male: “E a noi, istruiti ed educati non da un soggiorno nel Paradiso… ma dalla legge e dai profeti, l’Emmanuele, medico sapiente e dottore delle nostre anime, al tempo opportuno ci ha permesso di mangiare dal frutto dell’albero, avendo noi imparato che è lui stesso l’albero della conoscenza del bene e del male…”. L’immagine dell’albero porta Severo ad identificare Cristo stesso e la sua croce. E sempre nel contesto della narrazione dal libro della Genesi da cui Severo prende spunto, vediamo accostata l’immagine del cherubino messo alla porta del paradiso, che diventa il cherubino di fronte alla croce vittoriosa: “Dio mise un cherubino con una spada fiammeggiante per custodire il cammino verso l’albero della vita; il cherubino affinché noi sapessimo che l’albero della croce è l’albero di Dio, di fronte a cui stanno i cherubini… L’Emmanuele stabilì la spada fiammeggiante quando entrò nel paradiso, e l’ha ritirata quando ha fatto entrare con lui anche il ladro…”. Le liturgie orientali hanno sviluppato poi tutta la simbologia della croce come chiave con cui si riapre la porta del paradiso.
            Severo prosegue con una lunga serie di immagini veterotestamentarie che sono viste come prefigurazione della croce stessa: “E’ stato anche il pregiato legno della croce che ha fatto cessare il diluvio nei giorni di Noè. La colomba, presa come figura dello Spirito Santo, ritornò all’arca all’ora del tramonto, portando un ramo di ulivo ad indicare che la terra era asciutta. Anche per noi la croce è diventata il legno della misericordia e della carità; legno che l’Emmanuele, per la sua misericordia verso di noi, ha preso su di se; e che lo Spirito Santo ha annunziato per mezzo della bocca degli apostoli…”. E Severo prosegue con tante altre immagini che prefigurano la croce: il bastone di Mosè in Egitto di fronte al faraone, e nella vittoria contro Amalek.
            Severo prosegue l’omelia ricordando ai fedeli che lo ascoltano il terremoto di Antiochia del 14 settembre 458; da buon oratore approfitta questo fatto, nella tradizione oratoria della predicazione antiochena e crisostomiana, per esortare il suo uditorio nella loro vita cristiana e nella loro necessaria carità verso i bisognosi, come la mostrarono appunto gli antiocheni nei giorni del terremoto. Nell’ultima parte dell’omelia Severo riprende il tema della croce, presentandola come baluardo e come altare su cui si è offerto come vittima il Verbo di Dio incarnato: “Per questo, quando presentiamo davanti a voi il legno della croce, facciamo memoria del Dio che si è incarnato, vittima immolata per tutti noi… Perché l’altare propiziatorio veramente è la croce, come l’ha indicato il profeta Ezechiele nella visione del tempio spirituale che doveva venire, cioè la Chiesa… L’altare di legno è la croce su cui Cristo si è offerto come vittima spirituale, lui il Verbo di Dio che per noi si è incarnato e noi siamo innalzati alla conoscenza della Trinità santa”. Infine Severo conclude spiegando il significato della croce innalzata verso i quattro punti cardinali del mondo, evocando sicuramente il gesto fatto con la croce benedicente tutto il mondo nella liturgia di questo giorno: “…Colui che è stato disteso sulla croce e ha sofferto nella carne, è il Signore, creatore e artefice dei quattro angoli della terra e che tutto riempie”.

P. Manuel Nin, Pontificio Collegio Greco, Roma


sabato 7 settembre 2013

Le omelie di Andrea di Creta per la Natività della Madre di Dio.



Icona della Natività della Madre di Dio. Joun (Libano), XVIII secolo. (1)

Oggi nasce colei che generò la Parola eterna fattasi carne…
            
La festa della Natività della Madre di Dio è la prima delle grandi feste nel calendario liturgico bizantino. Di questa festa abbiamo alcune omelie patristiche di tradizione greca, soprattutto di due autori contemporanei tra di loro e  ambedue di origine siriana: Giovanni Damasceno e Andrea di Creta; di quest’ultimo vorrei soffermarmi nella prima delle sue omelie sulla festa odierna. Andrea è nato nella seconda metà del VII secolo a Damasco, e diventa monaco a Gerusalemme presso il Santo Sepolcro. All’inizio del VIII secolo è nominato vescovo di Gortina nell’isola di Creta; muore verso il 740. Un posto rilevante nella sua riflessione teologica lo occupa la figura della Madre di Dio, riflessione legata sempre al mistero dell’incarnazione in lei del Verbo di Dio. Di Andrea di Creta abbiamo quattro omelie sulla Natività della Madre di Dio, una sull’Annunciazione e tre sulla Dormizione della Mare di Dio.
            Andrea inizia l’omelia con una sorta di captatio benevolentiae in cui mette l'accento nella complettezza o se si vuol la perfezione del mistero che si celebra: "La celebrazione odierna e per noi l'inizio delle feste; e la prima per quanto riguarda la legge e l'ombra, ma in realtà è anche l'inizio per quanto riguarda la grazia e la verità. Inoltre è anche centrale e finale, poiche essa contiene l'inizio che e il passaggio della legge, il centro che è il collegamento degli estremi, e la fine che è la manifestazione della verità". Andrea presenta subito i due pilastri su cui si fondamenta il suo discorso, cioè la celebrazione della natività di Maria da una parte e il suo collegamento col mistero dell'incarzazione del Verbo di Dio dall’altra: "Questo è l'insieme dei benefici di Cristo verso di noi, questa è la manifestazione del mistero: la natura rinnovata, Dio e uomo, la divinizzazione dell'uomo assunto". L'espressione "natura rinnovada" adoperata qua da Andrea deve essere vista in rifferimento alla natura umana rinnovata grazie all'incarnazione, benché una variante testuale propone "natura spogliata", il che sarebbe un riferimento alla natura divina fattasi piccola, svuotata, a partire da Fl 2,9.
            La festa della Natività di Maria è segnata dalla gioia, un tema che troviamo ripetutamente sottolineato nei testi della liturgia bizantina per l'8 setembre; una gioia che per Andrea scaturisce sì dalla nascita della Madre di Dio, ma sopratutto dal suo collegamento con l'incarnazione del Verbo: "E tuttavia, al soggiorno di Dio fra gli uomini, splendido e luminoso, bisognava che ci fosse anche un inizio di gioia, attraverso la quale il grande dono della salvezza cammina verso di noi... Questo giorno gradito a Dio, il primo delle feste, portando sul capo la luce della verginità e come raccogliendo una corona di fiori illibati dai pascoli spirituali della Scrittura annuncia la gioia comune a tutta la creazione dicendo: «Abbiate fiducia, la celebrazione è per il genetliaco ma anche per la rigenerazione della stirpe umana. Ora una vergine è generata, nutrita e plasmata, ed è preparata come Madre di Dio...". Andrea sviluppa poi il parallelo Maria-Davide, con uno sfondo cristologico chiaramente calcedoniano: "Colei che discende da Davide ha riunito per noi, insieme a Davide, quest'assemblea spirituale: l'una, come Madre di Dio, presentando la sua nascita donata da Dio; l'altro mostrando la buona fortuna della sua stirpe e la straordinaria famigliarità di Dio con gli uomini. Mirabile prodigio! L'una s'interpone fra l'altezza di Dio e la piccolezza della carne, e diventa madre del suo creatore; l'altro profetizza il futuro come già presente...".
            Andrea presenta poi Colei che generò la Parola eterna fattasi carne, ricevente adesso la sua parola di encomio: "Celebriamo in modo conveniente il mistero di questo giorno, e presentiamo in dono alla madre della Parola proprio le parole, dato che a lei null'altro è caro se non la parola e l'onore che viene dalle parole...". La liturgia bizantina poi, e anche Andrea nella sua omelia ne è testimone, sottolinea i diveri ruoli che le due donne, cioè Maria ed Anna sua madre, svolgono nella celebrazione odierna: sterile, donna, vergine, madre: "Le sterili accorrano con slancio, poiché colei che era sterile e senza figli ha generato la vergine del divin Figlio. Le madri esultino, poiché la madre senza prole ha partorito la madre e vergine pura. Le vergini gioiscano, poiché la terra non seminata ha prodotto mirabilmente colui che deriva dal Padre senza mutamento. Le donne si facciano forza poiché la donna, che anticamente con leggerezza diede inizio al peccato, ora ha inrodotto la primizia della salvezza, e si mostra come eletta da Dio: madre che non conosce uomo, scelta dal creatore e restaurazione della nostra stirpe".
            L’autore continua il suo testo con una lunga serie di frasi che iniziano con la parola "oggi", dove presenta in modo sintetico e con delle immagini biliche molto suggerenti, il ruolo della Madre di Dio nel mistero della salvezza, e le applica tutta una serie di titoli cristologici e mariologici che verranno accolti dalla stessa tradizione liturgica bzantina: "Oggi e stato edificato il santuario creato dal Creatore di tutte le cose, e la creatura diventa per il Creatore sua divina dimora. Oggi la natura prima ridotta a terra è divinizzata e la polvere si innalza verso la gloria suprema. Oggi Adamo, che presenta per noi a Dio la primizia che proviene da noi, gli offre Maria; e per mezzo di lei la primizia diventa pane per la rigenerazione della stirpe. Oggi la genuina nobiltà degli uomini riceve di nuovo il dono della prima divinizzazione... Oggi la natura generata, rimanendo unita alla madre di Colui che è il più Bello riceve il fulgore della belleza. Oggi la sterile (Anna) è scoperta come madre al di la di ogni speranza, e a sua volta la madre di un figlio senza padre...rende sante tutte le generazioni... Oggi inizia la rigenerazione della nostra natura, e il mondo invecchiato accoglie gli inizi di una seconda creazione da parte da Dio...". Per Andea di Creta Maria partorisce senza le doglie del parto; non a metere in dubbio la realtà dell'incarnazione del Verbo di Dio (il testo sottolinea appunto che Maria allatta il figlio), ma per preservarne la verginità anche dopo il parto: "... egli era Dio, anche se scelse di essere generato carnalmente, ma senza le doglie: in modo che da una parte ella, la madre, evitasse ciò che è proprio delle madri, pur nutrendo con il latte colui che aveva generato senz’opera d'uomo; e d'altra parte ella, la vergine, partorendo una prole senza seme rimanesse vergine casta...".
            Andrea prosegue con un bel paragone tra la ceazione di Adamo dalla terra vergine, e la ricreazione della stirpe umana da una madre vergine: “Il Redentore del genere umano volendo presentare una nuova generazione, come prima plasmò il primo Adamo avendo preso del fango dalla terra ancora intatta e vergine, così anche ora operando da se stesso la sua propria incarnazione… scelse da tutta la natura umana questa vergine pura e immacolata: e l’artefice di Adamo… diventò nuovo Adamo affinché quello recente ed eterno salvasse l’antico…”. Andrea, infine, conclude la sua omelia esortando ad imitare coloro che per noi sono dei modelli, cioè gli stessi Gioachino ed Anna genitori della Madre di Dio: “”Se fra voi qualcuno è padre, imiti il padre della vergine… Se una madre sta allattando, gioisca con Anna che dopo la sterilità allatta la fanciulla… Se c’è una vergine casta, divenga madre della Parola, ornando con la parola la fermezza della sua anima…”.

P. Manuel Nin, Pontificio Collegio Greco, Roma




mercoledì 4 settembre 2013

Preghiera per la Pace in Siria





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dalla Conferenza Episcopale Italiana




In tutte le diocesi digiuno e preghiera  


La Segreteria Generale della CEI rilancia “il grido della pace”, di cui si è fatto espressione domenica 1 settembre Papa Francesco, nel corso della preghiera dell’Angelus. “Vivo con particolare sofferenza e preoccupazione le tante situazioni di conflitto che ci sono in questa nostra terra – ha confidato il Papa – ma, in questi giorni, il mio cuore è profondamente ferito da quello che sta accadendo in Siria e angosciato per i drammatici sviluppi che si prospettano”. Di qui la decisione di “indire per tutta la Chiesa, il 7 settembre prossimo, vigilia della ricorrenza della Natività di Maria, Regina della Pace, una giornata di digiuno e di preghiera per la pace in Siria, in Medio Oriente, e nel mondo intero”, iniziativa alla quale sono invitati, “nel modo che riterranno più opportuno, i fratelli cristiani non cattolici, gli appartenenti alle altre Religioni e gli uomini di buona volontà”. Per favorire una risposta di tutte le diocesi italiane, la Segreteria Generale – dopo aver scritto a tutti i Vescovi – mette a disposizione sul sito dell’Ufficio Liturgico Nazionale suggerimenti e proposte per organizzare sul territorio momenti di preghiera, in comunione con la Veglia per la pace che si terrà appunto sabato 7, dalle 19, in Piazza S. Pietro, e che sarà possibile seguire in diretta streaming sul presente portale.

Suggerimenti e proposte di preghiera si trovano indicati nel sito della Conferenza Episcopale Italiana:




L’esempio di Papa Francesco per il Syria Day




Sabato sera la veglia di Bergoglio e crescono le adesioni al suo appello

Digiuno per cristiani e musulmani, credenti e anche atei. Una giornata per promuovere «un esame di coscienza sull’impegno in favore della pace». Chiese aperte nelle diocesi e meeting mondiale alla basilica vaticana. L’evento di sabato, con la veglia convocata da Francesco in piazza San Pietro dalle 19 alle 23, raccoglie una mobilitazione crescente di ora in ora. Le adesioni si susseguono, da parte di tutti i movimenti cattolici, dalle altre Chiese cristiane alle altre religioni (Islam incluso), senza contare i politici (tra cui i ministri Mauro e Bonino) e le personalità della cultura. Francesco osserverà il digiuno ecclesiastico esortando «tutti gli uomini di buona volontà» a seguire il suo esempio. La prima parte del «Syria day» sarà ecumenica, la seconda seguirà la liturgia cattolica. Bergoglio ha fatto sapere ai collaboratori di non volere una piazza festante: né bagni di folla, né acclamazioni personali. Il clima sarà «penitenziale», come fu due mesi fa a Lampedusa per la commemorazione delle vittime degli sbarchi. Un «mea culpa» per le colpe del passato, incluse le divisioni tra cristiani («scandalo e vera controtestimonianza»). E l’appuntamento sta diventando un evento di portata planetaria. La segreteria di Stato ha invitato gli ambasciatori accreditati presso la Santa Sede a un briefing che si svolgerà domattina per informare il corpo diplomatico sui significati dell’iniziativa. Inoltre sono state contattate tutte le conferenze episcopali nazionali per dare informazioni sulla mobilitazione. I dicasteri vaticani, inoltre, hanno preso contatto con i referenti delle altre Chiese e delle altre confessioni religiose. Sono mobilitate, inoltre, tutte le diocesi e le Chiese locali. Il dicastero per la vita consacrata ha invitato a unirsi al digiuno e alla preghiera anche i frati e le suore, promuovendo momenti specifici nelle rispettive comunità. Sabato piazza San Pietro sarà aperta a tutti: dalle 16.30 si potrà accedere alla piazza, dove per le confessioni saranno disposti alcuni confessionali sotto il colonnato e il Braccio di Costantino. Alle 19, poi, l’arrivo del Papa sul sagrato. Quindi l’intronizzazione dell’immagine mariana della «Salus populi romani», a cui Francesco è devotissimo, e la recita del rosario, seguita dalla meditazione del Pontefice con un nuovo appello alla pace, dalla recita dell’ufficio delle letture e dalla benedizione eucaristica. La conclusione intorno alle 23. Una grande mobilitazione, che punta a scongiurare l’attacco alla Siria.

http://vaticaninsider.lastampa.it

La Siria affidata a Maria




Un’intensa preghiera perché in Siria torni a regnare la pace si è levata ieri, domenica 1 settembre, anche dal santuario siracusano dedicato alla Madonna delle lacrime, dove il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, ha presieduto la celebrazione per il sessantesimo anniversario della lacrimazione. «La tormentata vita dell’umanità in questa "valle di lacrime" — ha detto tra l’altro iniziando la sua omelia — o f f re anche oggi immagini dolorose che attraggono gli occhi misericordiosi della nostra Madre celeste. Sono immagini terribili che Papa Francesco ha richiamato, pronunciando un forte appello per la pace in Siria e nel mondo alla preghiera dell’Angelus di stamane». E dopo aver riproposto le parole del Pontefice ha chiesto di unire la loro preghiera a quella del Papa e di porla «nelle mani di Maria Regina della pace». Del resto, ha notato, le letture bibliche della celebrazione eucaristica hanno offerto «l’opportunità di una appropriata riflessione per sottolineare come la presenza mistica di Maria, che qui volle lasciare il segno della sua compassione per le sofferenze umane, sostiene lungo i secoli la fede, la speranza e la carità del popolo cristiano, accompagna il cammino dei suoi figli nella storia e condivide il loro pianto» Il porporato ha poi posto l’accento su tre atteggiamenti delle Vergine, «rimanere, ascoltare e accogliere» nei quali «si riassume l’esistenza di Maria, la sua vocazione, la sua missione. E poiché Maria è la madre e il modello della Chiesa, questi sono anche i verbi che segnano la sequela Christi». Proprio in quanto modello le sue lacrime assumono un significato particolare per i fedeli. «Quello delle lacrime — ha detto in proposito — è un linguaggio universale, che manifesta la compassione di Dio. E la Chiesa, che riceve da Maria questo messaggio, è chiamata a diventarne ambasciatrice». Il cardinale ha poi citato alcune immagini «semplici ed efficaci» utilizzate in questi mesi da Papa Francesco «per parlarci di Dio e del suo amore» e ha concluso ricordando tra l’altro che «il pianto di Maria è come il “collirio della memoria” contro l’idolatria del presente, un collirio che ci aiuta ad avere uno sguardo pieno di speranza verso il futuro; uno sguardo pieno di fede, per essere pronti alla conversione e docili allo Spirito». Al termine della celebrazione il segretario di Stato, su richiesta del rettore del santuario siracusano, ha incontrato un gruppo di giornalisti e ha risposto ad alcune loro domande. In particolare il cardinale Bertone ha voluto ricordare e sottolineare le linee portanti che hanno ispirato e sostenuto il suo servizio svolto in Segreteria di Stato — tra queste, un rapporto armonizzato tra fede e ragione, tra diritto e legge naturale, fra tradizione e modernità — richiamando poi alcuni avvenimenti memorabili, tra i quali le giornate mondiali della gioventù di Sydney e Madrid con Benedetto XVIe di Rio de Janeiro con Papa Francesco.


© Osservatore Romano - 2-3 settembre 2013

mercoledì 14 agosto 2013

Giovanni Damasceno per la Dormizione della Madre di Dio Tomba e morte non l'hanno trattenuta





Nella tradizione bizantina la festa della Dormizione della Madre di Dio è il sigillo che chiude l'anno liturgico, così come quella della sua Natività è l'inizio. La nascita e la glorificazione della Madre di Dio sono infatti anche l'inizio e il destino di tutta la Chiesa, di cui Maria è figura (týpos). Nell'ufficiatura mattutina vi è un canone di san Giovanni Damasceno (VII-VIII secolo) dove, a partire dalle odi bibliche che sono alla base del mattutino bizantino, sono sviluppati aspetti del mistero celebrato grazie a una lettura cristologica dei testi veterotestamentari.
L'autore sottolinea come la festa diventi una liturgia: "Adorna di divina gloria, o Vergine, la tua sacra e illustre memoria ha convocato alla festa tutti i fedeli che, preceduti da Maria con danze e timpani, cantano al tuo unigenito: Si è reso grandemente glorioso". Il Damasceno collega la prima ode (Esodo, 15, 1-19) con il transito, vero esodo, di Maria in cielo: "Vergini giovinette, insieme alla profetessa Maria, cantate ora il canto dell'esodo: perché la Vergine, la sola Madre di Dio, è trasferita all'eredità celeste. Accogli da noi il canto per il tuo esodo, o madre del Dio vivente". Qui Giovanni enumera i titoli dati a Maria nella festa e nelle tradizioni cristiane: "Degnamente, come cielo vivente ti hanno accolta, o tutta pura, le divine tende celesti: e tu, nella tua radiosa bellezza, hai preso posto come sposa tutta immacolata presso colui che è re e Dio".
Il transito della Madre di Dio diventa quasi una liturgia che raduna il cielo e la terra, manifestata dall'icona della festa: "Quale sorgente viva e copiosa, o Madre di Dio, rafforza i tuoi cantori, che allestiscono per te una festa spirituale, e nel giorno della tua divina gloria di corone di gloria rendili degni. La folla dei teologi dai confini della terra, la moltitudine degli angeli dall'alto, tutti si affrettavano verso il monte Sion al cenno della divina potenza, per prestare ben doverosamente, o sovrana, il loro servizio alla tua sepoltura. Da tutte le generazioni ti diciamo beata, o Madre di Dio vergine, perché in te si è compiaciuto dimorare il Cristo Dio nostro, che nessuna dimora può ospitare. Beati siamo anche noi, che abbiamo te quale protezione: giorno e notte, infatti, tu intercedi per noi".
Giovanni presenta chiaramente il tema della morte della Madre di Dio. Il suo transito alla vita avviene, come per Cristo stesso, attraverso l'esperienza della morte: "Da te è sorta la vita, senza sciogliere i vincoli della tua verginità. Come ha dunque potuto l'immacolata dimora del tuo corpo, origine di vita, aver parte all'esperienza della morte? Tu che sei stata sacrario della vita hai raggiunto l'eterna vita: attraverso la morte, infatti, sei passata alla vita, tu che hai partorito colui che è la vita. Tomba e morte non hanno trattenuto la Madre di Dio, sempre desta con la sua intercessione. Quale madre della vita, alla vita l'ha trasferita colui che nel suo grembo sempre vergine aveva preso dimora".
Nell'ottava ode Giovanni prende spunto dal cantico dei tre fanciulli (Daniele, 3, 57-88) e ne fa un commento cristologico e mariologico: "Il parto della Madre di Dio, allora prefigurato, ha salvato nella fornace i fanciulli intemerati; ma ora che si è attuato convoca tutta la terra che salmeggia: Celebrate, opere, il Signore, e sovresaltatelo per tutti i secoli". Quasi come il giardino della tomba vuota di Cristo, anche la tomba di Maria diventa un nuovo paradiso: "Oh, le meraviglie della sempre vergine e Madre di Dio! Ha reso paradiso la tomba che ha abitata, e noi oggi attorniandola cantiamo gioiosi". La stessa fornace di Babilonia è figura del grembo di Maria: "Il potentissimo angelo di Dio mostrò ai fanciulli come la fiamma irrorasse di rugiada i santi e bruciasse invece gli empi; e così ha reso la Madre di Dio fonte vivificante dalla quale insieme zampillano la distruzione della morte e la vita per quanti cantano: Noi redenti celebriamo l'unico creatore, e lo sovresaltiamo per tutti i secoli".

di Manuel Nin

martedì 6 agosto 2013

Perché crollò Bisanzio



In un articolo scritto nel 1896 per la rivista "Vestnik Evropy", Vladimir Solov'ev fa un'audace rilettura storica del bizantinismo. Il testo integrale è contenuto nell'ultimo numero della rivista "La Nuova Europa" (3/2013).

di Vladimir Solov'ëv

La Roma pagana cadde perché la sua idea di Stato assoluto divinizzato era inconciliabile con la verità rivelatasi nel cristianesimo, secondo la quale il potere supremo dello Stato è solamente una delega del potere autenticamente assoluto, divino-umano, di Cristo. La seconda Roma, Bisanzio, cadde perché, pur avendo accolto in teoria l'idea del regno cristiano, di fatto lo rifiutò, si fossilizzò nella costante e sistematica contraddizione tra le sue leggi, la sua amministrazione e le esigenze di un principio morale superiore.  L'antica Roma divinizzò se stessa e cadde. Bisanzio, pur essendosi sottomessa nelle idee al principio superiore, si ritenne salvata per il fatto di aver rivestito la propria vita pagana con un manto esteriore di dogmi e ritualità cristiane, e cadde anch'essa. Questa caduta diede un forte impulso alla coscienza storica di un popolo che, assieme al battesimo, aveva ricevuto dai greci anche il concetto di regno cristiano. Nella coscienza nazionale russa, così come si è espressa nel pensiero e negli scritti dei nostri uomini di cultura, dopo la caduta di Costantinopoli sorse la ferma convinzione che il ruolo del regno cristiano fosse passato ormai alla Russia, che essa fosse la terza e ultima Roma. Se si trattasse solo della prima Roma, indagare i motivi della sua caduta non sarebbe così difficile. Roma cadde perché il suo principio fondante era falso e non poté reggere all'impatto con la verità suprema. Ma che dire della Bisanzio ortodossa? Il suo principio fondante era vero e il suo scontro con i turchi musulmani non fu lo scontro con la verità suprema. O forse Bisanzio crollò soltanto a causa della forza materiale? Ma un'ipotesi del genere, a parte che è inammissibile dal punto di vista cristiano, è altresì contraria alla ragione e all'esperienza storica, che abbondano di prove evidenti secondo cui la forza materiale da sola è impotente. Non fu per la superiore forza materiale che gli antenati classici dei greci bizantini distrussero i regni d'Oriente, e non fu per la superiorità quantitativa che le armate d'Aragona e Castiglia respinsero definitivamente la presenza musulmana in Occidente, proprio nel momento in cui questa poneva fine all'Impero d'Oriente. Ci fu una causa interiore, spirituale nella caduta di Bisanzio, e dato che non consisteva in un falso oggetto di fede, giacché ciò in cui credevano i bizantini era vero, significa che la causa della loro rovina va individuata nel carattere falso della loro fede in quanto tale, ossia nel loro falso atteggiamento verso il cristianesimo: essi interpretavano e applicavano un'idea vera in modo sbagliato. La fede per loro era solo un oggetto di riconoscimento intellettuale e di venerazione ritualistica, ma non era il principio motore della vita. Orgogliosi della loro retta fede e della loro pietà, non vollero capire la semplice ed evidente verità che la retta fede e la pietà autentiche esigono che noi conformiamo in qualche modo la nostra vita a ciò in cui crediamo e che veneriamo; non vollero capire che l'autentica superiorità del regno cristiano rispetto agli altri esiste solo nella misura in cui questo regno si edifica e si amministra secondo lo spirito di Cristo.