La Chiesa russo-ortodossa celebra la Resurrezione. Messaggio al Papa e ai protestanti per una comune testimonianza della verità di Dio. Sondaggio: solo un russo su dieci partecipa alle funzioni religiose.
Mosca (AsiaNews) –
Ελληνικo Κολλεγιο Αγιου Αθανασιου
La Chiesa russo-ortodossa celebra la Resurrezione. Messaggio al Papa e ai protestanti per una comune testimonianza della verità di Dio. Sondaggio: solo un russo su dieci partecipa alle funzioni religiose.
Mosca (AsiaNews) –
Dal legno discese come frutto e salì al cielo come primizia…
Efrem il Siro (+373) nella sua abbondante innografia sulla Crocifissione e sulla Risurrezione di Cristo canta il mistero della nostra salvezza in tutta la bellezza della sua poesia e con la profondità della sua teologia. Del poeta siriaco abbiamo una collezione di inni pasquali che trattano tre aspetti particolari: gli azzimi -21 inni-, la crocifissione -9 inni- e la risurrezione -5 inni. Nell’inno VIII sulla crocifissione Efrem contempla lungo sedici strofe i luoghi e gli strumenti legati alla passione di Cristo, e come in altri dei suoi inni inizia ogni strofa con l’acclamazione “beato” indirizzata a ognuno di questi luoghi e strumenti. Il giardino del Getsemani è messo in parallelo col giardino dell'Eden, il luogo che vide la lotta ed il sudore di Adamo accoglie come profumo il sudore di Cristo: “Beato sei tu, luogo, che fosti degno di quel sudore del Figlio che su di te cadde. Alla terra mescolò il suo sudore per allontanare il sudore di Adamo… Beata la terra, che egli profumò con il suo sudore e che malata fu guarita”. L’Eden è anche presentato da Efrem come il luogo della volontà divisa di Adamo tra il precetto di Dio e l’astuzia del serpente, e che in Getsemani diventa per mezzo dello stesso Cristo il luogo dell'accoglienza e l’unità nella volontà del Padre: “Beato sei tu, luogo, perché hai fatto gioire il giardino delle delizie con le tue preghiere. In esso era divisa la volontà di Adamo verso il suo creatore… Nel giardino Gesù entrò, pregò e ricompose la volontà che si era divisa nel giardino e disse: «Non la mia ma la tua volontà!»”. Efrem dichiara pure beato il luogo del Golgota perché nella sua piccolezza accoglie il mistero della passione di Cristo: la riconciliazione con Dio, il saldo del debito ed il luogo da dove il buon ladrone parte per aprire ai redenti l’Eden. L’innografo si serve, come è abituale in lui, del contrasto tra i due luoghi: il cielo, luogo grande del Dio nascosto, ed il Golgota, piccolo luogo del Dio manifesto: “Beato sei anche tu, o Golgota! Il cielo ha invidiato la tua piccolezza. Non quando il Signore se ne stava lassù nel cielo avvenne la riconciliazione. È su di te che fu saldato il nostro debito. È partendo da te che il ladrone aprì l’Eden… Colui che fu ucciso su di te mi ha salvato”. Anche il buon ladrone è da Efrem dichiarato beato perché è condotto nel paradiso dal Signore stesso; la sua morte è incontro con Colui che è la Vita. Inoltre è molto bella l’immagine, sempre presentata per via di contrasto, che Efrem propone tra coloro che tradirono (Giuda), che negarono (Pietro), e che fuggirono (i discepoli), e colui che dall’alto della croce (il ladrone) lo annunzia, come se Efrem volesse sottolineare che lì nella croce il ladrone diventa apostolo: “Beato anche tu, ladrone, perché a causa della tua morte la Vita ti ha incontrato… Il nostro Signore ti ha preso e adagiato nell’Eden… Giuda tradì con inganno, anche Simone rinnegò e i discepoli fuggendo si nascosero: tu però lo hai annunziato”. Nello stesso inno Efrem, come farà anche nel suo commento al Vangelo, accosta per omonimia i diversi personaggi; nel nostro testo Giuseppe di Arimatea viene messo in parallelo a Giuseppe sposo di Maria. Il ruolo di costui nell’accogliere il Bambino neonato, nel fasciarlo, nel vederlo schiudere gli occhi, diventa in qualche modo il ruolo dell'altro Giuseppe verso Cristo calato dalla croce: “Beato sei tu, che hai lo stesso nome di Giuseppe il giusto, perché avvolgesti e seppellisti il Vivente defunto; chiudesti gli occhi al Vigilante addormentato che si addormentò e spogliò lo sheol”. Efrem canta beato anche il sepolcro, paragonato e a un grembo che rinchiude per sempre la morte, e all’Eden diventato sepolcro di Adamo, da dove egli stesso verrà redento da Cristo: “Beato sei anche tu, sepolcro unico, poiché la luce unigenita sorse in te. Dentro di te fu vinta la morte orgogliosa, che in te il Vivente morto ha cacciato via… Il sepolcro e il giardino sono simbolo dell'Eden nel quale Adamo morì di una morte invisibile… Il Vivente sepolto che risuscitò nel giardino risollevò colui che era caduto nel giardino”. Infine tre città sono dichiarate beate da Efrem, città che furono testimoni di tutto il mistero della redenzione: “Beate voi tre, senza invidia: del Terzo del Padre voi foste degne. La sua nascita a Betlemme, la sua abitazione a Nazaret, e a Betania poi la sua ascensione”. Il primo inno sulla Risurrezione è un canto al mistero della salvezza adoperato in Cristo, dalla sua incarnazione nel grembo di Maria, alla sua passione, morte e risurrezione. Per Efrem il Figlio di Dio incarnandosi diventa a pieno titolo il buon pastore che esce alla ricerca della pecora smarrita: “Volò e discese quel Pastore di tutti: cercò Adamo pecora smarrita, sulle proprie spalle la portò e salì…”. Efrem si serve dell'immagine del grembo e accosta quello del Padre e quello di Maria e come conseguenza anche quello dei credenti, gravidi della presenza in loro del Verbo di Dio: “Il Verbo del Padre venne dal suo grembo e rivestì il corpo in un altro grembo. Da grembo a grembo egli procedette e i grembi casti furono ripieni di lui. Benedetto colui che prese dimora in noi!”. Efrem sottolinea fortemente lungo tutto l’inno il rapporto stretto di tutto il mistero della salvezza che si realizza in Cristo, dalla sua esistenza eterna nel seno del Padre alla sua risurrezione e ascensione in cielo: “Dall’alto fluì come fiume e da Maria come una radice. Dal legno discese come frutto e salì al cielo come primizia… Dall’alto discese come Signore e dal ventre uscì come servo. Si inginocchiò la morte davanti a lui nello sheol e alla sua risurrezione la vita lo adorò…”. Ancora con altre immagini molto semplici e allo stesso tempo belle e profonde Efrem canta tutto il mistero della redenzione: “Maria lo portò come neonato. Il sacerdote lo portò come offerta. La croce lo portò come ucciso. Il cielo lo portò come Dio. Gloria al Padre suo!”. L’incarnazione di Cristo, sempre in questo stesso inno, Efrem la contempla ancora come l’avvicinarsi, il farsi prossimo di Cristo verso l’umanità debole e malata: “Gli impuri non aborrì e i peccatori non schivò. Degli innocenti gioì molto e molto desiderò i semplici… Dai malati non vennero meno i suoi piedi né le sue parole dagli ignoranti. Si protese la sua discesa verso i terrestri e la sua ascesa verso i celesti…”. Tutta la redenzione adoperata da Cristo Efrem la vede nella chiave del suo farsi vicino, del suo svuotarsi per sollevare e portare tutti gli uomini alla sua gloria divina: “Nel fiume lo annoverarono tra i battezzandi, e nel mare lo contarono tra i dormienti. Sul legno come ucciso e nel sepolcro come un cadavere… Chi per noi, Signore, come te? Il Grande che si fece piccolo, il Vigilante che si addormentò, il Puro che fu battezzato, il Vivente che perì, il Re disprezzato per dare a tutti onore…”
P. Manuel Nin, Pontificio Collegio Greco
Σήμερον κρεμάται επί ξύλου, ο εν ύδασι την γην κρεμάσας. Στέφανον εξ ακανθών περιτίθεται, ο των αγγέλων βασιλεύς. Ψευδή πορφύραν περιβάλλεται, ο περιβάλλων τον ουρανόν εν νεφέλαις. Ράπισμα κατεδέξατο, ο εν Ιορδάνη ελευθερώσας τον Αδάμ. Προσηλώθη, ο νυμφίος της Εκκλησίας. Λόγχη εκαντήθη, ο υιός της Παρθένου. Προσκυνούμεν σου τα Πάθη, Χριστέ. Δείξον ημίν και την ένδοξόν σου Ανάστασιν
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Oggi è sospeso su un legno Colui che sospese la terra sopra le acque. Viene cinto di una corona di spine il Re degli angeli. Viene rivestito di una falsa porpora Colui che riveste il cielo di nubi. Riceve schiaffi Colui che ha liberato Adamo nel Giordano, è perforato da chiodi lo Sposo della Chiesa, è trafitto da lancia il Figlio della Vergine. Adoriamo le tue sofferenze, o Cristo. Mostraci anche la tua gloriosa Resurrezione.
Il canone della Domenica delle Palme ed il tropario dell’innografa Cassianì.
In cielo assiso in trono, in terra sull’asinello
All’inizio della celebrazione della grande settimana della passione, morte e risurrezione del Signore, vorrei soffermarmi su due testi innografici della tradizione bizantina: uno della domenica delle Palme e l’altro del mercoledì santo. Il primo è il canone dell’ufficiatura del mattutino della domenica delle Palme nella tradizione bizantina, un poema attribuito a Cosma, innografo bizantino della seconda metà del VII secolo, monaco di san Saba e vescovo di Maiouma. Si tratta di un testo che riprendendo ancora il tema della risurrezione di Lazzaro celebrato lungo la settimana precedente lo mette assieme all’ingresso di Gesù a Gerusalemme: “L’ade tutto tremante, al tuo comando lasciò andare Lazzaro, morto da quattro giorni, perché tu, o Cristo, sei la risurrezione e la vita: in te è stata consolidata la Chiesa che acclama: Osanna, benedetto sei tu che vieni”. La lode dei bimbi e dei lattanti, immagine presa dal salmo 8, diventa la lode di tutta la Chiesa: “È lode della bocca di bimbi innocenti e di lattanti, la lode dei tuoi supplicanti che ti sei composta per abbattere l’avversario, per vendicare con la passione della croce la caduta dell’antico Adamo… La Chiesa dei santi ti offre una lode, o Cristo…”. La Chiesa che con i bimbi loda Cristo è la stessa che su di lui, che ne è la pietra angolare, viene fondata: “Bevve il popolo d’Israele alla dura roccia tagliata da cui per tuo comando sgorgava l’acqua: ma la roccia sei tu, o Cristo, e su questa pietra è stata consolidata la Chiesa…” Alcuni dei tropari di questo canone sottolineano il fatto che colui che entra umile su un puledro è anche il Creatore del cielo e della terra: “In cielo assiso in trono, in terra sull’asinello, o Cristo Dio, tu hai accolto la lode degli angeli e l’acclamazione dei fanciulli: Benedetto sei tu che vieni a richiamare Adamo dall’esilio… le folle portavano rami di piante… Vedendoti su un asinello, ti contemplavano come assiso sui cherubini, e per questo a te così gridavano: Osanna nel piú alto dei cieli…”. Ancora il poema mette in parallelo le acclamazioni dei bimbi in questa domenica con il loro pianto quando furono sgozzati da Erode: “Poiché hai legato l’ade, o immortale, ucciso la morte e risuscitato il mondo, con palme ti esaltavano i bambini, o Cristo, come vincitore… I bimbi non saranno più sgozzati per il bimbo di Maria perché per tutti, bimbi e vecchi, tu solo sarai crocifisso. La spada non si volgerà piú contro di noi, perché il tuo fianco sarà trafitto dalla lancia. Perciò diciamo esultanti: Benedetto sei tu che vieni per richiamare Adamo dall’esilio”. Il secondo testo su cui vogliamo soffermarci è tropario dell’innografa Cassianì. Si tratta di uno dei testi della liturgia bizantina per il mercoledì santo che viene cantato al mattutino e al vespro. È un tropario di una bellezza e di una profondità uniche nel suo genere, scritto da una monaca che visse a Costantinopoli nella prima metà del IX secolo. Nel suo insieme canta l’unzione che la donna peccatrice fecce a Gesù prima della sua passione. La figura delle donne mirrofore –portatrici di unguento, di miron- è presente nei vangeli, sia prima della passione di Cristo, come nel nostro caso, sia dopo la risurrezione di Gesù. Il tropario non precisa, e non lo farà la stessa liturgia bizantina del mercoledì santo, l’identità della donna: una peccatrice, come viene presentata da Mt e da Mc; oppure Maria sorella di Lazzaro, come viene presentata da Gv. Il nostro testo è un canto alla misericordia, al perdono e all’amore eterno di Dio per l’uomo, pur peccatore che esso sia, manifestatosi pienamente in Gesù Cristo. Il testo lo proponiamo diviso in quattro parti per facilitarne la lettura, benché ha in se stesso una unità infrangibile“. La donna caduta in molti peccati, sente la tua divinità, o Signore, e, assumendo l'ufficio di mirrofora, ti offre il miron con le lacrime prima della tua sepoltura, dicendo…”:. La prima parte del testo situa l’azione della donna; essa è peccatrice benché sente, percepisce sia nei sensi che nel cuore la divinità di Cristo, il suo potere di guarire, la sua forza per perdonare e salvare. Il peccato non allontana la donna dal vedere e confessare Cristo, la sua divinità. Il processo di conversione della donna, il suo avvicinarsi a Cristo, il testo lo presenta con l’immagine dell’assumere un mestiere, quello di mirrofora, portatrice di unguento, offrendo a Cristo il miron prima della sua sepoltura; e qui il tropario fa la stessa lettura che Cristo fa nel vangelo di Giovanni sull’unzione che serve appunto per preparare la sua sepoltura. Il testo sembra voler indicare anche che dopo la risurrezione sarà Cristo stesso che darà alla donna, all’umanità redenta, lui stesso come miron, come unguento di salvezza. In questa prima parte l’autrice usa la stessa immagine adoperata anche dagli autori degli altri tropari del mercoledì santo: il gioco di parole tra l’unguento e Colui che è l’Unto, che è il vero Miron, cioè Cristo. “Ahimè, sono prigioniera di una notte senza luce di luna, furore tenebroso di incontinenza, amore di peccato! Accetta i torrenti delle mie lacrime, tu che attiri nelle nubi l'acqua del mare. Piègati ai gemiti del mio cuore, tu che hai piegato i cieli nel tuo ineffabile annientamento”. La seconda parte del poema è la preghiera accorata della donna allo stesso Cristo. Il primo versetto di questa seconda parte: una notte senza luce di luna è un’immagine applicata non soltanto all’oscurità dell’anima peccatrice, ma soprattutto un riferimento alla Pasqua celebrata nel giorno di luna piena, ad indicare una vita senza la luce di Cristo, che è la vera Pasqua; notte senza la luce della luna, una notte senza la Pasqua di Cristo. Essendo tutto il tropario indirizzato a Cristo, l’autrice usa in questa parte due immagini cristologicamente contrastanti, con i testi di Gb 36,27 e del salmo 17,10; si tratta di uno stile usato spesso nei testi liturgici bizantini e siriaci, quello di presentare immagini molto contrastanti per sottolineare sia la vera divinità di Cristo che la sua vera umanità, immagini che tra di esse si completano. Sono da notare anche i due imperativi messi da Cassianì in bocca della donna: accetta e piégati; le forme imperative usate in testi liturgici danno l’idea della grande fiducia e libertà dell’uomo nei confronti di Dio. “Bacerò i tuoi piedi immacolati, li asciugherò con i riccioli del mio capo, quei piedi di cui Eva a sera percepì il suono dei passi nel Paradiso e per timore si nascose. Chi mai potrà scrutare la moltitudine dei miei peccati e l'abisso dei tuoi giudizi, o mio Salvatore, che salvi le anime?” La terza parte presenta l’atteggiamento della donna: il suo amore verso Cristo che nel poema è chiaramente anche il Creatore che cammina nel paradiso e di cui Eva sente i passi. Si tratta di un tema frequente nei Padri quello del Logos Creatore. Singolare la bellezza nel nostro testo dell’immagine o l’accostamento tra i piedi di Cristo baciati dalla donna ed i piedi di cui Eva sente il suono nel paradiso. I peccati della donna sono moltitudine; i giudizi, le decisioni di Cristo nei suoi confronti sono un abisso di misericordia, come la si presenta nella preghiera conclusiva: “Non disprezzare la tua serva, tu che possiedi incommensurabile la misericordia!”
© http://www.lastampa.it/cmstp/rubriche/rubricahome.asp?ID_blog=196 - 11 aprile 2011