L’umile lavoratore diventato umile
pastore.
La liturgia bizantina, nella settimana
che precede l’inizio della Quaresima, canta questo tropario: “Digiunando dai
cibi, anima mia, senza purificarti dalle passioni, invano ti rallegri per
l’astinenza, perché se essa non diviene per te occasione di correzione, sei in
odio a Dio come menzognera e ti rendi simile ai perfidi demoni che non si
cibano mai. Non rendere dunque inutile il digiuno peccando, ma rimani
irremovibile sotto gli impulsi sregolati, facendo conto di stare presso il
Salvatore crocifisso, o meglio di essere crocifissa insieme a Colui che per te
è stato crocifisso, gridando a lui: Ricòrdati di me Signore, quando verrai nel
tuo regno”.È un testo che spiega il vero senso del digiuno cristiano e alla
fine il tropario presenta il ruolo centrale della croce di Cristo nella vita
dei cristiani: “crocifissi insieme a Colui che per noi è stato crocifisso”. Non
ho potuto non accostare questo testo alle parole di Benedetto XVI nell’ultima
udienza del suo pontificato: “Non
abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso. Non
porto più la potestà dell’officio per il governo della Chiesa, ma nel servizio
della preghiera resto, per così dire, nel recinto di san Pietro. San Benedetto,
il cui nome porto da Papa, mi sarà di grande esempio in questo. Egli ci ha
mostrato la via per una vita, che, attiva o passiva, appartiene totalmente all’opera
di Dio”.
Quando
il 19 aprile 2005 Benedetto XVI, da poco eletto alla sede di Pietro nella
Chiesa di Roma, si presentò al suo popolo nella loggia della basilica vaticana,
si definì come “un umile lavoratore nella vigna del Signore”. Dopo quasi otto
anni di quotidiano umile lavoro, spesso strenua fatica, lo vediamo consegnare
la vigna arata, potata, curata con amore sponsale ad un altro che dovrà
continuarne la coltivazione. Nel pastore –e perché no?- nell’agricoltore
Benedetto XVI abbiamo visto quell’amoroso servizio che il profeta Isaia canta
per la sua vigna: “Voglio cantare per il mio diletto un cantico d'amore
alla sua vigna. Il mio diletto possedeva una vigna su un colle ubertoso.Egli la
vangò, la liberò dai sassi e la piantò di viti eccellenti, in mezzo ad essa
costruì una torre e vi scavò anche un tino; attese poi che facesse uva, invece
produsse uva aspra” Is 5,1-4). Cristo stesso nel vangelo usa questa immagine
della vigna per parlare dell'’amore di Dio verso il suo popolo. Come se l’umile
lavoratore Joseph Ratzinger, diventato per volontà di Dio ed il voto umano
l’umile pastore Benedetto XVI, non avesse voluto fare altro e niente di meno,
che vivere in se stesso, incarnare nel suo ministero pastorale, il canto del
profeta sulla sua amata vigna. Umile lavoratore diventato umile
pastore. Lungo il suo pontificato Benedetto XVI ha voluto in qualche modo
sparire, farsi piccolo, farsi discreto, ma non per ostensione ma per mostrare
Colui che è il vero pastore, incarnato, fattosi uomo per noi. Dall'inizio alla
fine del suo ministero pastorale non ha voluto parlare di se stesso, bensì come
umile pastore parlare dell'’unico Pastore. Già nella liturgia di inizio di
pontificato non volle né presentarsi, né proporre dei programmi, ma presentare
il Pastore, colui a chi lui stesso e tutti i simboli di quella liturgia
facevano riferimento, e perciò da buon mistagogo ne spiegò la simbologia.
Quando il 1 maggio 2011, domenica di san
Tommaso, Giovanni Paolo II per la benevolenza di Dio e per l’autorità
apostolica del suo successore nella sede romana, II entrò nell’albo dei beati,
la folla accorse di nuovo tra le braccia di piazza San Pietro, quel colonnato
che come il grembo di una madre accoglie i figli. E in quei giorni di maggio
colpì direi l’umiltà, la discrezione, la presenza quasi silenziosa di Benedetto
XVI, come se di forma naturale e convinta avesse voluto mettersi da parte,
all’ombra, per lasciar che fosse il predecessore ed amico che riprendesse il
suo posto. La vigilia della beatificazione, in quel circo massimo romano
gremito di giovani, Benedetto XVI da Castelgandolfo, ancora una volta discreto
quasi nascosto guidò, come pastore della diocesi romana, la preghiera
conclusiva di quella lunga vigilia. Pero la domenica a piazza San Pietro lui fu
veramente il liturgo, che invocò il Nome della Santa Trinità all’inizio della liturgia,
che proclamò davanti alla Chiesa e al mondo la santità del nuovo beato, che
commentò la Parola di Dio, e sui doni presentati invocò lo Spirito Santo
affinché diventassero il Corpo e il Sangue di Cristo. In una celebrazione
liturgica concelebrata coi patriarchi delle Chiese Orientali cattoliche ed i
padri cardinali, conclusasi con la sua preghiera silenziosa e discreta davanti
alla bara del suo predecessore beato Giovanni Paolo II. Umile
pastore fino alla conclusione del suo pontificato, del suo umile servizio alla
Chiesa Cattolica. Dopo aver annunciato in modo dimesso, e usando una lingua
forse in molti non più capita, che voleva continuare a portare il peso della
croce di Cristo, ma in modo molto diverso, e nelle settimane che hanno susseguito
questo annuncio non ha parlato di se stesso bensì umile pastore ha continuato
ad annunciare il vero Pastore. Nel suo ultimo incontro con i fedeli in quella
piazza San Pietro dalle braccia protese, Pietro ha abbracciato la Chiesa e la
Chiesa ha abbracciato Pietro. E nella sua catechesi, ancora una volta discreta
ed umile e per questo grande, il pastore –l’umile lavoratore- con la sua parola
ha curato con amore per ultima volta la sua amata vigna. E lo ha fatto nel
ringraziamento a Dio che guida sempre la Chiesa, nella grande fiducia che il
Vangelo è l’unica forza della Chiesa. Convinto che il Signore l’ha guidato nei
giorni di sole e di gioia e nei giorni di foschia e di sofferenza; nei giorni
in cui il mare è stato sereno e la barca solcava senza difficoltà, e nei giorni
in cui le onde l’hanno sbattuta e sembrava che il Signore dormiva. Ma lui, il
Signore c’era e c’è, e questa è la nostra fede. Convinti che Dio ci ama e ha
dato il suo Figlio per noi. E Benedetto XVI ha ringraziato ancora tante persone
che fedelmente hanno collaborato con lui, con spirito di fede e di umiltà; per fare
della Chiesa non una organizzazione ma un corpo vivo, comunione di fratelli e
sorelle nel Corpo di Cristo che ci unisce tutti. In un amore, ha ancora
ricordato Benedetto XVI che delle volte porta a scelte difficili, sempre per il
bene della Chiesa. Consapevolezza certa che dal momento della sua accettazione come
successore di Pietro nella chiesa di Roma lui, il Papa, non apparteneva più a
se stesso bensì a tutti e per sempre nell’abbraccio vicendevole di cui piazza
San Pietro in questa ultima udienza è diventata tipo e testimone. Quindi il
vignaiolo, il pastore, alla fine diremmo riprende il ruolo di teologo e spiega
il mistero della croce, di cui lui non scende bensì rimane in modo nuovo presso
il Signore crocifisso. Le parole di Benedetto XVI: “Non
abbandono la croce, ma resto in modo nuovo presso il Signore Crocifisso”, ci
portano a quelle del tropario iniziale: “… facendo conto di stare presso
il Salvatore crocifisso, o meglio di essere crocifissa insieme a Colui che per
te è stato crocifisso”. Dal
28 febbraio Benedetto XVI non scende dalla croce ma il suo nascondimento illumina
Colui che per noi è appeso alla croce. Nella liturgia bizantina, durante la lettura
del vangelo al vespro del Venerdì Santo, l’immagine del crocifisso viene
deposta dalla croce, avvolta in un lenzuolo e sepolta sotto l’altare che
diventa la tomba da cui sgorga la risurrezione e la vita. In mezzo alla navata
comunque rimane sempre, a vista di tutti la croce di Cristo. Benedetto XVI si
fa umile, sparisce, lasciando pero in mezzo alla Chiesa la croce vivificante di
nostro Signore Gesù Cristo, che è sempre per noi cristiani l’albero della vita
che ci porta all’incontro con l’unico vero Pastore della Chiesa.
P. Manuel Nin, Pontificio Collegio Greco,
Roma
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